Penale

PENALE - Limiti della confisca in caso di "reato in contratto" ex D.L.vo n° 231/01.

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Truffa contrattuale e limiti della confisca ex D.L.vo n° 231/01 sono i due temi d'una recente pronuncia della Seconda Sezione Penale della Cassazione.
La Corte infatti, nel recepire l'orientamento formatosi con la nota decisione delle Sezioni Unite n° 26654 del 27.03.08, ha stabilito che, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, nel distinguere il "reato contratto" dal "reato in contratto", il profitto del reato oggetto della confisca ex art. 19 D.L.vo n° 231/2001 s'identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal rapporto presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell'ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerata tale anche l'utilità eventualmente conseguita da danneggiato in ragione dell'esecuzione da parte dell'ente delle prestazioni che il contratto gli impone.

La somma “restituita” alla p.o., quindi, va scomputata da quanto incassato col reato, affinché si realizzi una confisca parametrata sul profitto “attuale” al momento della sua applicazione (l'accrescimento patrimoniale frutto dell'illecito), anziché all'utile derivato dal reato al momento della sua consumazione.
Diversamente la confisca darebbe vita a un effetto sanzionatorio illegittimo, siccome non previsto dalla legge.
Dunque, la confisca nei confronti dell'ente va disposta solo per quella porzione di profitto del reato presupposto che non possa essere restituito al danneggiato e, inoltre, va esclusa la confiscabilità della somma sequestrata per equivalente, se tale somma abbia già formato oggetto di restituzione alla parte offesa.

Corte di Cassazione, Sezione II penale, Sentenza 16.11/05.12.2011 n° 45054

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE II

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Antonio ESPOSITO, Presidente
Dott. Giuliano CASUCCI, Consigliere
Dott. Alberto MACCHIA, Rel. Consigliere
Dott. Piercamillo DAVIGO, Consigliere
Dott. Giovanna VERGA, Consigliere
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul Ricorso proposto da: 1) B.C.A., nato il (omissis); 2) S.n.c. F.lli (omissis);
avverso la Sentenza n° 6269/09 del Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Como, del 01.022011;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. A. Macchia;
lette le conclusioni del P.G., Dott. S. Spinaci, che ha chiesto il rigetto del Ricorso.

Osserva
Con sentenza del 01.02.2011, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Como ha applicato, a norma dell'art. 444 C.P.P., nei confronti di B.C.A., imputato di truffa aggravata, la pena di mesi otto di reclusione ed € 200 di multa e nei confronti della S.n.c. F.lli (omissis) la sanzione amministrativa pecuniaria di € 8.600,00 disponendo altresì, a norma degli artt. 9, co. 1, e 19, co. 2, del D.L.vo n° 231/2001, la confisca della somma di € 19.044,29 già sottoposta a sequestro preventivo, in quanto profitto del reato.
Osservava a tal riguardo il giudice a quo, che l'art. 19, co. 1, del D.L.vo n° 231/2001 esclude la confiscabilità del prezzo o del profitto del reato che può essere restituito al danneggiato: dunque, beni specifici restituibili, che non vanno confusi con l'eventuale risarcimento del danno.
Ma anche ove si volesse ritenere che il limite alla confiscabilità riguardi anche l'ipotesi del risarcimento, sarebbe risolutivo il rilievo - rileva il giudice a quo - che il co. 2 dello stesso art. 19 consente la confisca per equivalente, vale a dire su somme diverse rispetto a quelle che devono formare oggetto di restituzione, anche se intesa in senso risarcitorio.
Propone Ricorso per cassazione il difensore, il quale deduce che la somma in questione non doveva essere confiscata o comunque non doveva essere confiscata per intero, in quanto nella specie - come attestato dal riconoscimento della corrispondente attenuante, sarebbe intervenuto l'integrale risarcimento dei danni patiti dalla parte offesa Regione Lombardia.
Posto che nella vicenda in esame vi è coincidenza tra profitto conseguito e danno cagionato alla parte offesa, l'applicazione del provvedimento ablatorio determinerebbe una duplicazione di esborso priva di causa, posto che la disciplina della normativa di riferimento mira a realizzare il ripristino dello status quo ante.
Pertanto, solo ove non siano attivabili strumenti riparatori civili, potrà intervenire la confisca del profitto.
Non sarebbe stata poi tenuta in considerazione ai fini della determinazione del profitto, la parte della condotta che ha comunque rappresentato una prestazione lecita, contestandosi al riguardo le modalità di computo del profitto globalmente tratto dalla società, posto che tale profitto deve essere valutato al netto di eventuali controprestazioni lecite.
Il Ricorso è fondato.
Agli effetti dell'odierno scrutinio è innanzi tutto fondamentale evocare l'approdo ermeneutico cui sono pervenute le Sezioni unite di questa Corte nel tracciare, ai fini che qui interessano, il concetto di profitto del reato.
Nella Sentenza n° 26654 del 27.03.08, infatti il Collegio allargato ha infatti avuto modo di affermare il principio secondo il quale in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all'art. 19 del D.L.vo n° 231/2001 s'identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal rapporto presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell'ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l'utilità eventualmente conseguita da danneggiato in ragione dell'esecuzione da parte dell'ente delle prestazioni che il contratto gli impone.
Nella richiamata pronuncia, in particolare, le Sezioni unite hanno operato una distinzione tra la condotta dell'agente che sia inserita in un contesto di attività illecita e quella inserita in una attività lecita, nell'ambito della quale occasionalmente e strumentalmente venga consumato il reato, per introdurre una ulteriore differenziazione circa l'individuazione del profitto tra il cosiddetto “reato contratto”, in cui l'illecito si realizza unicamente con la stipula del contratto, e il cosiddetto “reato in contratto”, nell'ambito del quale il comportamento penalmente rilevante non si perfeziona con la stipula, ma incide solo sulla fase di formazione o di esecuzione del contratto.
Mentre, dunque, nel primo caso il profitto costituisce immediata e diretta conseguenza del contratto e, di conseguenza, sarà assoggettato a confisca, nell'altro caso non può non considerarsi che dal contratto possono derivare conseguenze del tutto lecite, sicché il corrispondente profitto tratto dall'agente non sempre è direttamente collegabile alla condotta sanzionata penalmente.
Il reato di truffa - contestato tanto nella vicenda sulla quale ebbero a soffermarsi le Sezioni Unite nella Sentenza di cui qui si tratta, che in quella oggetto del presente Ricorso - rientra, dunque, nella categoria dei “reati in contratto”, sicché occorre differenziare il vantaggio economico derivante direttamente dal reato e che può essere oggetto di confisca a norma dell'art. 19 del D.L.vo n° 231/2001, dall'eventuale incremento economico determinato da una prestazione lecita eseguita in favore della controparte nel corso dell'apporto contrattuale, e che rappresenta il profitto non confiscabile, nella misura in cui risulta estraneo alla attività criminosa posta in essere.
Le Sezioni Unite hanno in proposito posto in risalto la circostanza che «la genesi illecita di un rapporto giuridico, che comporta obblighi sinallagmatici destinati a protrarsi nel tempo, non necessariamente connota d'illiceità l'intera fase evolutiva del rapporto, dalla quale, invece, possono emergere spazi assolutamente leciti ed estranei all'attività criminosa nella quale sono rimasti coinvolti determinati soggetti e, per essi, l'ente collettivo di riferimento».
Pertanto, si è aggiunto, «il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall'obbligato e accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure».
Diversamente - ed è questo il punto centrale cui occorre fare riferimento - una nozione dilatata del profitto di reato porterebbe ad una irragionevole e sostanziale duplicazione della sanzione, nella ipotesi in cui l'ente, adempiendo al contratto, che pure ha trovato la sua genesi nell'illecito, pone in essere una attività i cui risultati economici non possono essere posti in collegamento diretto ed immediato con l'illecito.
In tale quadro di riferimento deve dunque essere inquadrato l'aspetto centrale della vicenda, indebitamente negletto dal Giudice a quo, giacché, come emerge dallo stesso capo d'imputazione, nella vicenda in esame il profitto derivato dalla condotta assunta come truffaldina è stato individuato in termini quantitativamente equivalenti al danno cagionato alla parte offesa Regione Lombardia.
Pertanto, le somme che in adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione sono state rifuse alla Regione stessa non rappresentano soltanto il titolo in forza del quale è stata riconosciuta l'attenuante di cui all'art. 62 n° 6 C.P. - la quale presuppone, appunto, la integrale riparazione del danno cagionato dal reato mediante il risarcimento «e, quando sia possibile», «le restituzioni» - ma anche la corrispondente e “pari” (come recita l'imputazione) diminuzione proprio del profitto che dall'illecito era stato tratto.
Pertanto, ove la somma “restituita” - o comunque rifusa - non fosse computata come ontologica riduzione di ciò che il reato aveva fruttato, la confisca non prenderebbe più in considerazione l'utilità economica che è residuata all'esito di una condotta di adempimento dell'obbligo restitutorio, ma un importo avulso dalle condotte riparatorie e come tale raccordabile ad un tipo di sanzione non prevista dall'ordinamento.
Tale sarebbe, infatti, una confisca parametrata non sul profitto “attuale” al momento della sua applicazione, e dunque al netto delle restituzioni, ma all'utile derivato dal reato al momento della sua consumazione.
In sostanza, la confisca verrebbe a colpire non l'accrescimento patrimoniale frutto dell'illecito, ma una parte del patrimonio in quanto tale, dando così vita ad un effetto sanzionatorio illegittimo, in quanto non previsto dalla legge.
L'assunto, poi, del Giudice a quo secondo il quale la confisca per equivalente renderebbe inoperante la clausola prevista dal co. 1 dell'art. 19 D.L.vo n° 231/2001 non può essere condivisa.
Questa Corte ha infatti avuto modo di affermare in più occasioni che, in tema di responsabilità degli enti, la confisca deve essere disposta soltanto per quella parte del profitto del reato presupposto che non possa essere restituito al danneggiato (Cass., Sez. VI, 17.06.10, n° 35748; Cass., Sez. VI, 21.01.10, n° 16526).
Il che, evidentemente, consente di escludere la confiscabilità della somma sequestrata per equivalente, ove tale somma o parte di essa abbia già formato oggetto di restituzione, specie laddove, come nella specie, profitto e danno siano assunti come valori corrispondenti e strutturalmente simmetrici, rispettivamente conseguito, l'uno, dall'autore dell'illecito, e cagionato, l'altro, alla parte offesa.
La Sentenza impugnata deve dunque essere annullata, limitatamente alla disposta confisca, e gli atti devono conseguentemente essere trasmessi al Tribunale di Como per nuovo giudizio sul punto.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla disposta confisca e dispone trasmettersi gli atti al tribunale di Como per nuovo giudizio sul punto.
Così deciso in Roma il 16 novembre 2011.
Depositato in cancelleria il 5 dicembre 2011

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