Penale

PENALE - Videoriprese, toilette pubblica e violenza privata

lavatory

Sussiste il reato di violenza privata - e non il diverso delitto di interferenze illecite nell'altrui vita privata ex art. 615-bis C.P. - nel fatto di colui che effettui insidiose riprese visive in un bagno pubblico, mediante una telecamera posta sotto la porta.
La toilette pubblica non può considerarsi luogo di privata dimora assimilabile al domicilio, per carenza del requisito della "stabilità relativa", che consente di rendere autonomo un luogo rispetto alla persona che ne ha la titolarità, anche in sua assenza, vietando lì il compimento di violazioni intrusive.

Era difatti già ragionevolmente prevedibile il dissenso (benché manifestato solo in seguito) della persona la cui intimità è stata violata, anche solo per breve momento, atteso che il sistema con cui sono state captate le immagini è idoneo a limitare coattivamente la tranquillità psichica e la libertà di orientare i propri comportamenti (che costituiscono, in una con la libertà di autodeterminazione, aspetti della libertà morale oggetto della tutela ex art. 610 C.P.).

 

Cassazione penale, Sez. V, 03/16.03.2009, n° 11522

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NARDI Domenico, Presidente                    
Dott. CARROZZA Arturo, Consigliere  -                     
Dott. OLDI Paolo, Consigliere                   
Dott. SANDRELLI Giangiacomo, Consigliere  -                     
Dott. VESSICHELLI Maria, Consigliere  -                     
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA/ORDINANZA

sul ricorso proposto da: 1) F.M., nato il (omissis); avverso Sentenza del 11/07/2007 Corte d'Appello di Trieste;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso; udita in Pubblica Udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Maria Vessichelli;
Udito  il  Procuratore Generale in persona del Cons. Dr. Angelo Di Popolo, che ha concluso per la inammissibilità del ricorso.

Fatto
FATTO E DIRITTO
Propone ricorso per Cassazione F.M. avverso la sentenza della Corte di appello di Trieste in data 11 luglio 2007, con la quale, in relazione ai fatti addebitatigli in primo grado ai sensi dell'art. 610 c.p., venivano riqualificati gli stessi ex art. 615 bis c.p., con conferma della condanna in precedenza inflitta e condanna alle ulteriori spese della parte civile. Il F. era stato accusato di avere ripreso immagini della minore B.S. mentre questa si trovava all'interno di un bagno della stazione di (omissis), fatto commesso il (omissis). Deduce:
1) il vizio di motivazione contenuto nella sentenza impugnata a proposito della ritenuta esistenza di una valida querela;
2) la non configurabilità del reato, che deve svolgersi in un luogo di privata dimora, alla luce della sentenza delle Sezioni unite del 2006 che ha escluso che sia tale un bagno pubblico.
Il ricorso deve essere rigettato, con le precisazioni di cui si dirà.
Il secondo motivo, inerente alla qualificazione giuridica del fatto, ha carattere pregiudiziale e quindi viene affrontato per primo.
Risponde al vero quanto osservato dal ricorrente, secondo cui la sentenza impugnata, nel riqualificare i fatti ai sensi dell'art. 615 bis c.p., esibisce una motivazione che non fa buon governo dei principi enunciati dalle Sezioni unite sulla nozione di "luogo di privata dimora" o di "domicilio" ai sensi dell'art. 614 c.p., norma richiamata espressamente dall'art. 615 bis c.p..
Infatti, nella sentenza Sez. U, n. 26795 del 2006, il Supremo collegio, con affermazione che, sebbene resa nel contesto della interpretazione della normativa processuale in tema di videoriprese, appare di carattere generale, ha osservato che "non c'è dubbio che il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona e un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente. Diversamente nel caso della "toilette" e nei casi analoghi il luogo in quanto tale non riceve alcuna tutela. Chiunque può entrare in una toilette pubblica, quando è libera, e la polizia giudiziaria ben potrebbe prenderne visione indipendentemente dal l'esistenza delle condizioni processuali che legittimano attività ispettive. Perciò con ragione la giurisprudenza ha introdotto il requisito della "stabilità", perché è solo questa, anche se intesa in senso relativo, che può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli acquistare un'autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità.
Deve quindi concludersi che una toilette pubblica non può essere considerata un domicilio neppure nel tempo in cui è occupata da una persona" Tale premessa però non conduce all'accoglimento della richiesta di annullamento senza rinvio perché il fatto reato non sussiste.
E' vero invece - e il potere di correzione dell'errore di diritto compete a questa Corte ai sensi del l'art. 609 c.p.p., comma 2 che appare non corretta la qualificazione giuridica del fatto così come operata dal giudice dell'appello, mentre corretta era quella individuata dal primo giudice.
Deve precisarsi contestualmente che non è maturata la prescrizione, a causa della rilevazione della sospensione del termine, dovuta ad un rinvio di udienza disposto nel processo di appello, rinvio che va valutato ai sensi del previgente testo dell'art. 159 c.p., ossia nella sua intera durata. Infatti, come osservato dalla giurisprudenza di questa Corte, posto che al caso di specie va applicata la previgente normativa in tema di prescrizione (per essere stata, la sentenza di primo grado, pronunciata antecedentemente alla entrata in vigore della riforma del 2005), va anche considerato che "la disciplina transitoria prevista dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3, nella parte in cui esclude l'applicazione dei termini di prescrizione più brevi ai processi pendenti in appello e in sede di legittimità, deve essere interpretata in senso unitario, e cioè nel senso che l'esclusione riguarda tutte le disposizioni che comportino una abbreviazione dei termini, compresa quelli dell'art. 159 c.p.p., che impone un limite, non superiore a sessanta giorni, alla sospensione del termine di prescrizione nel caso di differimento del dibattimento dovuto ad impedimento delle parti o dei difensori" (rv. 240862; Massime precedenti Conformi: N. 9589 del 2006 Rv.
233528, N. 15177 del 2007 Rv. 23681 N. 16477 del 2008 Rv. 239527).
Occorre, dunque, muovere dal rilievo che l'interesse tutelato dall'art. 610 c.p. è la libertà morale, da intendersi come libertà di determinarsi spontaneamente secondo motivi propri: alla libertà morale va quindi ricondotta sia la facoltà di formare liberamente la propria volontà, sia quella di orientare i propri comportamenti in conformità delle determinazioni liberamente prese. In altri termini, come osservato anche dalla dottrina, è troppo restrittiva, ai fini che ci occupano, la definizione di libertà morale come libertà di autodeterminazione perché essa identifica solo un aspetto della libertà morale e non consente di includervi gli altri aspetti tutelati sotto tale oggettività giuridica, dalla libertà di autodeterminazione secondo motivi propri, fino alla tranquillità psichica (nel senso della necessaria inclusione della libertà psichica nella oggettività della norma in esame, v. rv 200681).
Perché ricorra la lesione della libertà psichica occorre ovviamente che il soggetto passivo percepisca, anche solo in parte, l'azione costrittiva dell'agente, mentre essa viene attuata, dovendosi ritenere che quando l'azione sia percepita dopo che essa è stata interamente compiuta il reato configurabile può essere quello di molestie ex art. 660 c.p. (Cass. 6 marzo 1953, Brosio, riv pen 1953, 11, 1032). La condotta illecita che si manifesti nella forma della violenza, d'altro canto, è, per la costante giurisprudenza, anche quella impropria, esplicabile in forme molteplici dirette ad esercitare pressioni sulla volontà altrui al fine di impedire una libera manifestazione.
La giurisprudenza di questa Corte, inoltre, ammette che integri il reato di violenza privata la condotta che consista nel compimento deliberato di manovre insidiose al fine di interferire con la libertà di determinazione della persona offesa (vedi in senso analogo rv 222349).
Infatti non è richiesta, per larga parte della giurisprudenza, una condotta esplicitamente connotata da violenza o minaccia, posto che il requisito della violenza si identifica in qualsiasi messo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione (rv 234458; rv 232459). Ed è irrilevante, per la consumazione del reato, che la condotta criminosa si protragga nel tempo, trattandosi di reato istantaneo (rv 228063).
Nella specie tale è la situazione che si è verificata poiché l'avere introdotto una telecamera sotto la porta del bagno in modo da captare immagini intime della persona che ivi si era chiusa, ha realizzato appieno la imposizione insidiosa di una costrizione che è stata quella, anche relativa al solo brevissimo tempo in cui la parte si è avveduta della ripresa in corso, prima di attuare una manovra reattiva che necessariamente ha comportato tempi tecnici, di subire la videoripresa della propria sfera intima.
E' cioè accaduto che se in pratica il dissenso della persona offesa ha avuto modo di manifestarsi con quasi-immediatezza, è anche vero che la condotta dell'agente è stata consapevolmente e deliberatamente posta in essere contro il dissenso ragionevolmente prevedibile e solo successivamente manifestato dalla persona offesa.
Ciò posto, la condotta va riqualificata ex art. 610 c.p. e, atteso che il primo motivo perde di rilevanza, il ricorso va rigettato.

P.Q.M.

Riqualificato il fatto ex art. 610 c.p., rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 3 marzo 2009.
Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2009

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