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PENALE - Datore di lavoro, altruità del denaro e appropriazione indebita di somme del dipendente.

soldi

Il legale rappresentante di una società che si appropri della quota dello stipendio che un dipendente aveva ceduto pro solvendo ad una banca, a seguito di un prestito erogatogli, risponde del reato di appropriazione indebita? Questo il quesito cui sono state chiamate a rispondere le Sezioni Unite Penali. La Suprema Corte ha dato risposta negativa alla questione, individuando nel fatto della presenza o no di un conferimento di denaro, al soggetto agente proveniente ab externo, il discrimen tra la condotta delittuosa ex art. 646 C.P. e il mero inadempimento civilistico.

Nel caso del datore di lavoro che trattenga somme spettanti (a diverso titolo, far fronte per esso o in sua vece agli obblighi fiscali, retributivi o previdenziali) al lavoratore, però, non v'è alcun conferimento ab externo, il denaro mai essendo entrato a far parte del patrimonio del dipendente.
Questi, peraltro, vanta un mero diritto di credito alla retribuzione: perciò, non può ritenersi penalmente responsabile ai sensi dell'art. 646 C.P. colui che ometta d'adempiere alle obbligazioni pecuniarie cui è chiamato a far fronte con il proprio patrimonio.
Invero, l
a regola dell'acquisizione "per confusione" del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della nozione di "altruità" di cui all'art. 646 C.P.

 

Viceversa sarebbe responsabile di appropriazione indebita colui che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impiego vincolato, se ne appropri, dandole una destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta, quale - ad esempio - le ipotesi di denaro o beni fungibili conferiti come mezzo per l'esecuzione di una qualche forma di mandato oppure riscossi dal rappresentante per conto del rappresentato o in esecuzione di un mandato senza rappresentanza, dati in deposito o pegno irregolare o - non potendosi escludere in astratto un tale tipo di contratto avente oggetto, ad pompam, cose fungibili - in comodato, come caparra o a garanzia, per il conferimento o l'impiego in fondo patrimoniale separato.Ma se l'inadempimento (di obbligazioni pecuniarie) del datore di lavoro concerne versamenti che egli avrebbe dovuto fare con quote del proprio patrimonio non conferite né vincolate a tale scopo, allora non v'è reato.

 

Suprema Corte di Cassazione
Sezioni Unite Penali
Sentenza 20 ottobre 2011 n° 37954

Presidente: Lupo
Relatore: Di Tomassi

Ritenuto in fatto

1. Con la decisione in epigrafe la Corte di appello di Lecce ha confermato la sentenza in data 11.02.2009 del Tribunale di Lecce, Sez. Dist. di Galatina, nella parte in cui aveva dichiarato C.O. responsabile del reato di cui agli artt. 81, 61, primo comma, n° 11, e 646 C.P., commesso da luglio a novembre dell'anno 2002, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti all'aggravante, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di nove mesi di reclusione e € 600 di multa, nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile. In parziale riforma della decisione di primo grado, la Corte di Appello riduceva l'ammontare dei danni liquidati in favore della parte civile, che determinava in € 6.000.
1.1. Stando alla contestazione, C.O. , agendo in tempi diversi e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso quale legale rappresentante della C. S.r.l., nei mesi di luglio, agosto, settembre, ottobre e novembre dell'anno 2002, s'era appropriato denaro della dipendente S.U. , per la somma complessiva di € 557,75, corrispondente agli importi mensili di € 111,55 fatti figurare sulle buste paga come trattenuti per essere versati alla Banca F. S.p.a. in adempimento del contratto di cessione pro solvendo di una quota dello stipendio stipulato dalla S.U. con l'istituto di credito, a seguito di prestito di denaro da questo erogatole, notificato al datore di lavoro e da questo accettato (con “separato atto di benestare”). Non essendo stati gli importi mai pagati, la banca aveva proceduto con decreto ingiuntivo nei confronti della S.U. e della C. S.r.l.

1.2. La Corte disattendeva i rilievi dell'appellante, secondo cui difettava nella specie l'elemento costitutivo della altruità del bene - denaro - oggetto di appropriazione, evocando i principi affermati da Sez. Un. n° 1327 del 27.10.2004, rv. 229634.
Affermava, in particolare, che a base delle argomentazioni svolte in tale sentenza stava la necessità di distinguere il caso in cui il datore di lavoro opera quale sostituto d'imposta, rispetto a quelli in cui egli sia "meramente responsabile per debito altrui". Solamente nelle prime ipotesi il datore di lavoro poteva ritenersi “debitore in proprio” ed era personalmente e direttamente obbligato (verso lo Stato o la Cassa edile) per le somme dovute, rispetto alle quali il lavoratore non aveva “titolarità attiva”, ma soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate: con la conseguenza che l'omesso versamento di tali somme non integrava il reato di appropriazione indebita. Negli altri casi [di mera responsabilità per debito altrui], il denaro o la cosa mobile non entravano a far parte “ab origine del patrimonio del possessore” e, pur confluendo nel patrimonio dell'agente, restavano, per il vincolo di destinazione che li caratterizzava, “di proprietà diretta o indiretta di altri”: in deroga, come espressamente previsto dall'art. 646 C.P., ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà di cose fungibili. Sicché l'agente che dava alla cosa o al denaro una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui lo possedeva o non restituiva la cosa o il denaro a richiesta o alla scadenza, commetteva, come era avvenuto nel caso di specie, il reato di appropriazione indebita.
2. L'imputato ha proposto ricorso per Cassazione a mezzo del difensore, avvocato Angelo Roma, che chiede l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
Con unico motivo denunzia violazione della legge sostanziale, nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, sostenendo che la fattispecie concreta non poteva integrare quella astratta di appropriazione indebita. Difettava in particolare il requisito della "altruità" del denaro in tesi appropriato, trattandosi di somme che il datore di lavoro doveva alla dipendente e oggetto, da parte di questa, di cessione di credito.
Premette, in fatto, che nel caso in esame l'altruità del denaro oggetto di asserita appropriazione era in concreto smentita anche dalla circostanza che, per il credito relativo alle trattenute operate sulla retribuzione della S.U., la Banca era stata ammessa con privilegio, trattandosi di crediti da lavoro dipendente, al passivo del debitore ceduto, C. S.r.l. in amministrazione straordinaria. 
Richiama quindi, a sostegno, la pronuncia delle Sezioni Unite n° 1327/04i, i cui contenuti sarebbero stati equivocati dalla Corte d'Appello. Le somme trattenute sullo stipendio non erano entrate ab extrinseco a far parte del patrimonio del possessore (della C. S.r.l.), rimanendo connotate “da un vincolo specifico di destinazione”. Al contrario, la quota di stipendio ceduta dalla dipendente era sempre rimasta nella esclusiva disponibilità del possessore (debitore ceduto), confusa ab origine nel suo patrimonio. Nella situazione in esame era pienamente applicabile, perciò, il principio affermato dalla sentenza n° 1327/04, secondo cui il denaro trattenuto dal datore di lavoro sui compensi del dipendente in quanto “destinato a terzi a vario titolo (per legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto idoneo a far sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del lavoratore)”, “rimane sempre nel patrimonio del datore di lavoro, confuso con tutti gli altri diritti e beni che lo compongono”. 
Il ricorso diffusamente argomenta, quindi, sulla necessità di conformare, il più possibile, la nozione di cosa altrui valevole per il diritto penale ai concetti civilistici, pur con gli ovvi adattamenti necessari per le ipotesi di cose fungibili. Proprio perciò detta nozione, con riferimento al denaro, non poteva che essere ricondotta, secondo il criterio adottato dalle Sezioni Unite, al profilo del trasferimento preliminare ed effettivo (“ab estrinseco”) del possesso: solo la consegna del danaro ad un terzo, affinché ne faccia un determinato uso nell'interesse del tradens, consentendo di affermare che dal punto di vista penale l'appartenenza del denaro a quest'ultimo non viene meno.  
3. Con memoria ritualmente depositata a mezzo del difensore e rappresentante, avvocato D. T., la parte civile ha chiesto il rigetto del ricorso e la condanna dell'Imputato alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione. 
Evidenzia, in sintesi, che la disomogeneità tra la fattispecie trattata dalle Sezioni unite nella citata sentenza n° 1327/04 - che si era occupata di trattenute o ritenute ex lege - e quella in esame - concernente un'ipotesi di trattenuta volontaria, in assenza della quale il lavoratore avrebbe percepito la somma direttamente dal datore di lavoro - legittimava le diverse conclusioni cui era pervenuta la Corte di Appello di Lecce. 
In relazione alla fattispecie al loro esame, le Sezioni Unite avevano evidenziato come l'importo corrispondente alle somme trattenute ex lege non soltanto non era mai stato versato al lavoratore, ma “soprattutto” mai avrebbe potuto esserlo, “avendo il dipendente soltanto il diritto a percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte”, così ponendo l'accento sull'obbligo proprio, incombente sul datore di lavoro, che differenziava le ipotesi allora esaminate da quelle in cui il datore di lavoro funge da mero tramite per l'adempimento di un obbligo del lavoratore. Nel caso in esame l'emissione di busta paga e la corresponsione della retribuzione decurtata della somma trattenuta in forza della cessione del debito aveva comportato che tutta la retribuzione doveva ritenersi già entrata a far parte del patrimonio del lavoratore pur essendo rimasta in parte vincolata ad una specifica destinazione (si richiama a tale proposito a Sez. Un, n° 27641 del 28.05.2003, rv. 224609). Era inoltre evidente che allorché la sentenza delle Sezioni Unite n° 1327/04 aveva richiamato gli accordi economici, intendeva riferirsi ad accordi collettivi. 
4. La Seconda Sezione Penale, investita del ricorso, lo ha rimesso alle Sezioni Unite rilevando che, pur dopo la sentenza n° 1327/04, s'era obiettivamente manifestato un contrasto di giurisprudenza sul punto oggetto di doglianza, relativo alla riconducibilità alla fattispecie di appropriazione indebita della condotta del datore di lavoro che ometta di versare le somme di denaro trattenute sulla retribuzione spettante al lavoratore in vista del versamento in favore di un soggetto creditore di quest'ultimo. E richiama da un lato Cass. Sez. 2, n° 15115 del 04.03.2010, rv. 249400, già citata dal ricorrente; dall'altro Cass. Sez. 2, n° 19911 del 18.03.2009, rv. 244737.

Considerato in diritto

1. La questione posta alle Sezioni Unite è così sintetizzabile: “se, in caso di cessione di parte della retribuzione dal lavoratore al suo creditore, integri il reato di appropriazione indebita la condotta del datore di lavoro che ometta di versare la quota dovuta al cessionario”.
2. La sentenza impugnata ha ritenuto che costituiva appropriazione indebita la condotta contestata all'imputato che, agendo quale legale rappresentante della C. S.r.l., aveva omesso di versare all'istituto finanziario cessionario di quota del credito da prestazioni lavorative della dipendente S.U., in forza di atto negoziale notificato e accettato dal debitore, le somme di denaro trattenute a tale titolo dalle retribuzioni erogate alla dipendente.
Il ricorso contesta tale assunto, sostenendo che il denaro corrispondente alle somme trattenute dal datore di lavoro sullo stipendio della lavoratrice per far fronte al debito di costei, non poteva considerarsi, ancora, di proprietà "altrui". Il datore di lavoro aveva in altri termini assunto soltanto la veste di debitore (ceduto) verso un terzo ed era responsabile di mera inadempienza.
3. Deve rilevarsi che il reato, contestato come commesso da luglio a novembre 2002 e per il quale la sentenza di primo grado è intervenuta il giorno 11.02.2009, sarebbe ad oggi prescritto. Il termine di sette anni e sei mesi, sospeso dal 23.01 al 15.05.2008 a causa di rinvio del dibattimento per l'adesione dei difensori all'astensione di categoria, cadeva difatti il 23.04.2011.
La configurabilità del reato è però questione che deve essere comunque risolta a mente dell'art. 129, secondo comma, C.P.
L'evidenza risultante dagli atti, cui si riferisce tale disposizione, concerne esclusivamente gli aspetti della fattispecie concreta.
Postulata la rispondenza della contestazione agli atti del procedimento, la sussumibilità del fatto nella fattispecie astratta è questione di diritto che, per quanto complessa, si risolve nella individuazione del contenuto normativo del precetto penale.
È perciò premessa legale di ogni altra decisione sul processo o sul fatto.
4. Con riguardo alla configurabilità del reato, sia la sentenza impugnata sia il ricorrente evocano, a sostegno delle rispettive contrapposte tesi, Sez. Un., n° 1327 del 27.10.2004, dep. 19.01.2005, rv. 229634, propugnando differenti interpretazioni dei principi affermati da tale sentenza in tema di "altruità" delle somme trattenute dal datore di lavoro sulla retribuzione erogata ai dipendenti.
Secondo la Sezione rimettente, né l'una né l'altra di tali letture divergenti, che riprendono pregressi orientamenti, sarebbe implausibile, corrispondendo ciascuna a distinti orientamenti che si sono manifestati nella giurisprudenza di legittimità anche dopo la sentenza n° 1327/04.
5. Occorre dunque in premessa ricordare che il quesito esaminato dalla sentenza n° 1327/04 era se il mancato versamento delle trattenute operate, in percentuale, dal datore di lavoro sulla retribuzione in vista del versamento alle Casse edili integrasse appropriazione indebita, ovvero configurasse unicamente la violazione amministrativa prevista dall'art. 13 D.L.vo 19.12.1994 n° 758 (che aveva sostituito integralmente l'art. 8 legge 14.07.1959 n° 741).
Le Sezioni Unite risolsero il dubbio nel senso che detta condotta poteva configurare esclusivamente la violazione amministrativa.
Osservarono in particolare che, “sia per quanto concerne il caso di specie, che per quanto riguarda le altre analoghe forme di ritenute alla fonte, il denaro trattenuto dal datore di lavoro al dipendente rimane sempre nel patrimonio del datore di lavoro, confuso con tutti gli altri diritti e beni che lo compongono. Il lavoratore, di conseguenza, non acquista alla scadenza la proprietà delle somme trattenute, ed il datore di lavoro non perde la proprietà di tali somme, ma ha soltanto l'obbligo, analogamente a quanto avviene per il sostituto d'imposta, di versarle alla Cassa Edile ed agli Enti di Previdenza nella misura ed alle scadenze previste dalle singole disposizioni”.
6. Come rileva l'Ordinanza di rimessione, prima della sentenza n° 1327/04 la giurisprudenza di questa Corte aveva numerose volte affermato che le somme trattenute dal datore di lavoro sulle retribuzioni del dipendente e destinate a terzi per legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto o fatto idoneo a far sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del lavoratore, erano da considerare parte integrante della retribuzione spettante al lavoratore quale corrispettivo per la prestazione già resa.
La circostanza che tali somme avessero una destinazione precisa, non modificabile unilateralmente e vincolata al versamento da effettuare entro un termine certo, a garanzia del terzo e del lavoratore, portava a ritenere che esse non "appartenessero" più al datore di lavoro, che, si sosteneva, ne manteneva solo una disponibilità precaria.
Da ciò si desumeva che commettesse il reato di appropriazione indebita il datore di lavoro che scientemente lasciasse trascorrere il termine per il versamento, manifestando con tale omissione la volontà di appropriarsi di una somma non sua e di cui solo provvisoriamente disponeva.
La stessa Ordinanza di rimessione cita come espressioni di tale orientamento Cass. Sez. 2, n° 30075 del 27.06.2003, rv. 226684; Cass. Sez. 2, n° 5785 dell'11.02.1999, rv. 213304; Cass. Sez. 2, n° 10683 del 12.05.1993, rv. 196734, tutte relative a trattenute per contributi da versare alla Cassa edile.
6.1. In linea con detto orientamento si poneva il filone giurisprudenziale che aveva riguardo all'omesso versamento di somme trattenute per contributi previdenziali e assicurativi e riteneva che il mancato versamento di detti contributi, oltre il termine di scadenza previsto, integrasse il reato di appropriazione indebita.
Aderivano tra le altre: Cass. Sez. 2, n° 463 del 27.02.1970, rv. 115348, che osservava come nell'effettuare le trattenute di dette somme il datore ne divenga il depositario e altresì come i lavoratori siano tenuti a lasciare nelle mani del datore di lavoro le quote di salario corrispondenti alla parte dei contributi assicurativi posta a loro carico, in forza di un rapporto fiduciario insito al rapporto di lavoro; Cass. Sez. 2, n° 3528 del 27.09.1982, rv. 158589, che escludeva, in particolare, l'assorbimento dell'appropriazione indebita nel reato di omesso versamento di contributi previdenziali, affermando la ravvisabilità del concorso formale; Cass. Sez. 2, n° 10339 del 30.03.1987, rv. 176762, sul presupposto che titolare di tali somme dovesse ritenersi il dipendente dal momento del pagamento del salario o dello stipendio sino all'effettivo versamento all'istituto previdenziale.
6.2. Il tema della natura appropriativa della condotta di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, era lambito anche da Sez. Un., n° 27641 del 28.05.2003, a proposito della configurabilità dell'art. 2, commi 1 e 1 bis, D.L. 12.09.1983 n° 463, convertito dalla legge 11.11.1983 n° 683, in assenza del materiale esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione.
La conclusione raggiunta, nel senso che il reato non è configurabile a carico del datore di lavoro nel caso di mancata corresponsione della retribuzione ai dipendenti, veniva in tale decisione sostenuta, oltre che sulla base del riferimento testale alle "ritenute operate", sui rilievi: “che il legislatore con l'articolo 2 del decreto-legge n° 463/1983 ha inteso reprimere non il fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, ma il più grave fatto commissivo dell'appropriazione indebita da parte del datore di lavoro di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti”; “che quindi l'obbligo di versare le ritenute nasce solo al momento della effettiva corresponsione della retribuzione, sulla quale le ritenute stesse debbono essere operate”; che, “ove così non fosse, la differenza di trattamento tra le due fattispecie sarebbe del tutto irragionevole e potrebbe dare adito a dubbi di legittimità costituzionale”; che al contrario “tale differenza di trattamento si giustifica perfettamente se si considera che il legislatore ha chiaramente assimilato il mancato versamento delle ritenute previdenziali e assicurative al delitto punito dall'art. 646 C.P., la cui pena edittale - non certamente per un caso - è assolutamente identica a quella prevista dall'art. 2, co. 1-bis, del D.L. n° 683/1983”.
A giustificazione di tale ultima asserzione, la detta sentenza si limitava tuttavia a fare rimando alle considerazioni di Cass. Sez. 3, n° 39178 del 05.10.2001, relativa all'omesso versamento di ritenute operate alla fonte sui redditi da lavoro dipendente, già sanzionato dall'art. 2 della legge 07.08.1982 n° 516, nella quale si concludeva nel senso che tale condotta non poteva trovare inquadramento e sanzione nell'art. 646 C.P., ma si faceva richiamo, tra l'altro, agli argomenti del Procuratore Generale (riportati in motivazione e dichiaratamente condivisi dal Collegio) il quale a sua volta partiva dalla premessa che occorreva distinguere tra l'ipotesi del datore di lavoro debitore in proprio verso l'amministrazione finanziaria, in relazione alla quale l'omesso pagamento non costituiva appropriazione indebita per difetto del requisito dell'altruità, e l'ipotesi del datore di lavoro tenuto al pagamento di un debito altrui, come nel caso di quote di contributi previdenziali trattenute sulla retribuzione, in cui il mancato versamento integrava invece appropriazione indebita.
Il riferimento alla "appropriazione indebita" ad opera del datore di lavoro delle somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti per il pagamento di oneri previdenziali, contenuto nella sentenza predetta, appare dunque estremamente indiretto, ed assume nell'economia della decisione un valore meramente, per così dire, sostanziale, servendo al limitato fine di sostenere che la condotta di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, istituito dall'art. 2 D.L. n° 463/1983, era in qualche modo strutturalmente "assimilabile" a quella prevista dall'art. 646 C.P.
La sentenza non affronta difatti il problema della utilità della disposizione speciale, né quello del concorso o dell'assorbimento del reato di cui all'art. 646 C.P., per l'ipotesi in cui la medesima condotta fosse stata da ritenere realmente sussumibile in entrambe le fattispecie astratte.
7. Tutti codesti orientamenti venivano, ad ogni buon conto, considerati nella sentenza n° 1327/04.
7.1. A fini di chiarezza, é anzitutto da dire che, in relazione alla specifica questione posta al suo esame, la sentenza individua la natura retributiva delle somme trattenute dal datore di lavoro per il versamento alla Cassa edile, di cui si discuteva.
Evidenzia, in particolare, che il meccanismo previsto per il pagamento alla Cassa da parte del datore di lavoro e il conseguente diritto dei lavoratori ad ottenere da questa la corresponsione delle somme dovute - per ferie, festività e gratifiche natalizie - integra una delegazione di pagamento; la Cassa non diviene obbligata nei confronti del lavoratore con il mero sorgere del rapporto di lavoro, bensì solo con il pagamento, da parte del datore di lavoro, delle somme stesse; il lavoratore, dal suo canto, può agire nei confronti del datore di lavoro per il pagamento delle somme dovute, essendo titolare di un diritto di credito direttamente azionabile nel caso in cui il datore di lavoro abbia omesso il versamento delle somme trattenute sulla retribuzione.
Sottolinea, quindi, che alle Casse edili non poteva essere riconosciuta natura di enti di previdenza e di assistenza, perché con la locuzione "gestioni previdenziali ed assistenziali" il legislatore, come pacificamente ammesso, intendeva riferirsi agli enti di previdenza ed assistenza all'epoca esistenti, quali l'INPS, l'INAM, l'INAIL ed altre gestioni speciali autonome; perché la trattenuta effettuata a favore della Casse edili non ha natura "contributiva previdenziale o assistenziale", ma di salario differito che trovava la sua legittimazione in un accordo contrattuale (sia pure recepito formalmente in un atto avente forza di legge); perché le Casse edili non svolgono funzioni previdenziali ed assistenziali, ma di intermediazione tra datori di lavoro e lavoratori, secondo gli approdi consolidati della giurisprudenza civile di legittimità.
7.2. Tentando, poi, di mettere ordine nella contraddittoria elaborazione giurisprudenziale in materia di somme a vario titolo trattenute, la sentenza n° 1327/04 osserva che le sentenze della S.C. [(omissis); v. sopra, al par. 6] non sono condivisibili, perché l'orientamento in esse seguito non é coerente con il principio affermato per la fattispecie delle ritenute sulle retribuzioni effettuate dal datore di lavoro a favore dell'erario, in realtà analoga e in relazione alla quale era al contrario già costantemente esclusa la configurabilità del reato di appropriazione indebita, sia a danno dei lavoratori dipendenti sia nei confronti dello Stato, proprio sul presupposto della mancanza del requisito dalla "altruità" delle somme trattenute.
Rileva che, se la ragione per la quale è esclusa dalla costante giurisprudenza la "altruità" della somma trattenuta per il versamento all'erario risiede nella liberazione del lavoratore dall'obbligo del pagamento del tributo (Cass. Sez. 2, n° 10667 del 26.05.1983, rv. 161665; Cass. Sez. 2, n° 8780 del 26.05.1983, rv. 160823; Cass. Sez. 2, n° 9037 del 26.05.1983, rv. 160912; Cass. Sez. 2, n° 10437 del 26.05.1983, rv. 161553; Cass. Sez. 3, n° 39178 del 05.10.2001, rv. 220359), a maggior ragione dovrebbe escludersi la sussistenza di tale requisito nel caso delle trattenute sulla retribuzione da versarsi alle Cassa edile (e delle ritenute per contributi previdenziali), atteso che anche in questo caso l'obbligazione grava, dal suo nascere ed anche per la quota spettante al lavoratore, unicamente sul datore di lavoro.
In realtà - prosegue la sentenza n° 1327/04 -, la posizione del datore di lavoro-sostituto d'imposta è completamente sovrapponibile a quella del datore di lavoro che effettua le trattenute sulle retribuzioni per riversarle alla Cassa edile, e, a maggior ragione, a quella del datore di lavoro che effettua le ritenute dei contributi previdenziali.
In ciascuno di detti casi, difatti, si é in presenza di un "accantonamento" di una somma determinata di denaro, finalizzata ad un fine determinato, da versarsi ad un terzo alle scadenze stabilite.
Siffatte ipotesi - rimarca la sentenza - sono accomunate dalla caratteristica dell'obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore la retribuzione al netto di "ritenute" a vario titolo effettuate (“per debito di imposta, per contributi previdenziali, in forza di accordi economici o di contratti collettivi”), e sono inoltre tutte egualmente connotate dalla circostanza che “il denaro oggetto dell'appropriazione è rappresentato da una quota ideale del patrimonio del possessore, indistinta da tutti gli altri beni e rapporti che contribuiscono a costituirlo”.
La somma trattenuta o ritenuta resta, in altri termini, nella esclusiva disponibilità del datore di lavoro-possessore, non soltanto perché non é mai materialmente versata al lavoratore, ma soprattutto perché mai può esserlo, avendo il dipendente soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte dal datore di lavoro.
Le "trattenute", perciò, si risolvono “in una operazione meramente contabile diretta a determinare l'importo della somma che il datore di lavoro è obbligato a versare, in base ad una norma di legge o avente forza di legge, alla scadenza pattuita in conseguenza della corresponsione della retribuzione”.
Al contrario - conclude la sentenza n° 1327/04 - in tutti i casi trattati dalla giurisprudenza e pacificamente ritenuti riconducibili all'appropriazione indebita, il denaro o la cosa mobile di cui l'agente si appropria, “non fanno mai parte ab origine del patrimonio del possessore”, ma vi entrano “ad estrinseco”, e con esso patrimonio non si confondono perché connotati da una vincolo specifico di destinazione; sicché di tali beni può dirsi che restano di "proprietà" diretta od indiretta di altri, in virtù della deroga - espressamente prevista dall'art. 646 C.P. - ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà delle cose fungibili (Cass. Sez. 2, n° 2445 del 17.06.1977, rv. 137092).
8. Dopo detta sentenza, il contrasto di giurisprudenza non sembra tuttavia - come segnala l'ordinanza di rimessione - essersi del tutto sopito.
8.1. Da un lato si pongono, difatti, Cass. Sez. 2, n° 768 dell'11.11.2005, dep. 2006; Cass. Sez. 2, n° 16361 del 28.04.2006; Cass. Sez. 2, n° 7182 del 25.01.2006; Cass. Sez. 2, n° 43739 del 13.11.2007; Cass. Sez. 2, n° 47646 del 05.12.2008; Cass. Sez. 2, n° 5216 del 19.12.2008, dep. 2009; Cass. Sez. 2, n° 10057 del 24.02.2009 (tutte non massimate); che richiamando la sentenza n° 1327/04, hanno escluso la sussistenza dell'appropriazione indebita contestata in fattispecie analoghe a quella oggetto di tale decisione; Cass. Sez. 2, n° 15115 del 04.03.2010, rv. 249400 (indicata nell'Ordinanza di rimessione), che, sempre richiamando la sentenza n° 1327/04, ha escluso la sussistenza dell'altruità del denaro, e dunque dell'appropriazione indebita, nell'ipotesi di mancato versamento delle quote associative spettanti al sindacato di categoria al quale erano iscritti dipendenti dell'imputata, delegata dai lavoratori interessati al versamento di tali quote trattenute sullo stipendio; nonché Cass. Sez. 2, n° 20851 del 21.04.2009, rv. 244806, che, sul presupposto che denaro altrui è quello che non fa parte ab origine del "patrimonio" del possessore ma confluisce in esso con un vincolo di destinazione, come affermato dalla sentenza n° 1327/04, ha ritenuto che non integra il delitto di cui all'art. 646 C.P. la condotta di corresponsione della retribuzione ai dipendenti in misura inferiore rispetto a quella risultante dalla busta paga.
8.2. Dall'altro militano, invece, Cass. Sez. 2, n° 8023 del 07.02.2008 (non massimata) e Cass. Sez. 2, n° 23034 del 18.04.2007 (non massimata), che, occupandosi di contestazioni relative, rispettivamente, all'omesso versamento delle trattenute previdenziali ed assistenziali alla competente gestione dell'I.N.P.S. e all'omesso versamento alla Cassa edile delle somme trattenute a tale titolo sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti, hanno affermato sussistente il delitto di appropriazione indebita, non facendo menzione delle Sezioni Unite n° 1327/04, ma rifacendosi invece direttamente agli orientamenti delle altre sentenze (omissis; sopra, par. 6); nonché Cass. Sez. 2, n° 19911 del 18.03.2009, rv. 244737 (segnalata dall'Ordinanza di rimessione) che ravvisa il delitto in questione nella condotta del datore di lavoro che omette di accantonare, e di versare all'INPS, le somme trattenute a titolo di trattamento di fine rapporto spettante al lavoratore, sull'assunto che i principi della sentenza n° 1327/04, concernenti l'accantonamento di trattenute non aventi natura contributiva previdenziale e assistenziale, non riguardavano la fattispecie in esame.
9. Alla luce degli argomenti posti a fondamento della sentenza n° 1327/04, è però evidente che allorché le Sezioni semplici hanno inteso sostenere, implicitamente o espressamente, che i principi in essa affermati non si riferivano all'omesso versamento di somme trattenute in vista dell'adempimento di obblighi di natura contributiva, previdenziale e assistenziale, hanno obliterato quanto a chiare lettere affermato in detta sentenza a proposito della comune connotazione alla stregua di somme mai uscite dal patrimonio del datore di lavoro delle trattenute imputabili a debiti retributivi, contributivi o d'imposta; della identica natura di accantonamenti puramente contabili della registrazione di tali trattenute; delle analoghe conseguenze che se ne dovevano trarre in punto di non configurabilità dell'appropriazione indebita per difetto del requisito dell'altruità degli importi trattenuti, trattandosi di somme non confluite dall'esterno nel patrimonio dell'obbligato con tale vincolo di destinazione, ma in quello sin dall'origine comprese.
10. Tanto posto, ritiene il Collegio che non vi sono ragioni per dissentire, in ipotesi quali quella in esame, dagli approdi raggiunti delle Sezioni Unite con la sentenza n° 1327/04.
La decisione, benché riferita a fattispecie concreta concernente l'omesso versamento delle trattenute destinate alla Cassa edile, s'attaglia indubbiamente alla situazione oggetto del giudizio a quo, relativa alla cessione di una quota dello stipendio effettuata dalla dipendente prò solvendo a favore di un terzo.
La cessione negoziale riguarda, anche in questo caso, una quota della retribuzione che pacificamente eccede i limiti della quota impignorabile, insequestrabile e incedibile, quindi giuridicamente indisponibile o intangibile, della retribuzione; è stata effettuata dalla dipendente all'istituto di credito contestualmente alla anticipazione da parte di questo di una somma per il pagamento di un suo debito; come ogni contratto di sconto, ha comportato il trasferimento della titolarità del credito ceduto - con i privilegi, le garanzie e gli accessori suoi propri - in capo all'ente finanziatore contestualmente all'erogazione dell'anticipazione, indipendentemente dalla notificazione o dalla accettazione della cessione, che, avvenute, hanno semplicemente perfezionato la condizione di opponibilità del negozio al ceduto, rilevante ai fini della sua liberazione all'eventuale atto del pagamento.
Nulla consente di distinguere perciò, come già rilevava la sentenza n° 1327/04, l'omesso pagamento al cessionario della quota di stipendio trattenuta da quanto versato a titolo di retribuzione al lavoratore, dall'omesso pagamento, integrale e parziale, della retribuzione al lavoratore. In relazione a un inadempimento di tal fatta del datore di lavoro non è possibile considerare già appartenente al patrimonio del lavoratore la somma corrispondente alla retribuzione a lui dovuta, mai uscita e separata dal patrimonio del datore di lavoro, specie quando comunque ecceda le quote intangibili, non essendo prevista - ad opera dei datori di lavoro, di alcun tipo - la costituzione, ex lege o volontaria, di fondi o patrimoni separati deputati al pagamento delle retribuzioni, neppure ai limitati fini dell'assolvimento degli obblighi di tutela prescritti dall'art. 36 Cost. Sicché non v'è modo di configurare, allo stato della legislazione vigente, il delitto di appropriazione indebita (su tale conclusione in relazione al mancato pagamento delle retribuzioni pareva già convenire, peraltro, anche Sez. Un., (omisis)).
11. Il Collegio è consapevole delle critiche mosse a questa impostazione nella memoria della parte civile e da quella parte della dottrina, e della giurisprudenza, che biasimano da un lato l'adozione di criteri interpretativi assertivamente improntati a canoni troppo marcatamente civilistici, dall'altro la perdita di vista delle ragioni di tutela proprie del diritto penale.
Tuttavia, la soluzione adottata per individuare e circoscrivere il canone dell'altruità della res fungibile, che costituisce il presupposto del reato di indebita appropriazione ad opera di chi di tale cosa ha il possesso o la detenzione qualificata, non s'ispira affatto pedissequamente agli schemi del diritto civile ed appare anzi espressione della condivisa necessità di trarre soluzioni interpretative dai dati positivi normativi e sistematici, privilegiando un approccio esegetico-sperimentale piuttosto che rigide posizioni dommatiche.
12. Di principio, quando la fattispecie penale utilizza per la designazione di un fatto, o di un istituto, un "termine" che ha in altro ramo del diritto una propria configurazione "tecnica", dovrebbe presumersi che anche il diritto penale lo assuma con analogo significato, giacché il diritto richiede certezze e riconoscibilità, e dunque l'uso di elementi normativi deve conformarsi quanto più possibile ai canoni della determinatezza e tassatività.
Per accogliere ai fini penali una diversa accezione del termine, occorre trovare nella stessa legge penale una ragione, ovverosia quella che autorevole dottrina definisce “una giustificazione conveniente”, per “segni certi”, della diversa accezione.
Tali segni, o indicatori, vanno ricercati, secondo le regole generali sull'interpretazione delle leggi, oltre che nella formulazione della disposizione, nel confronto con altre disposizioni e nella funzione della norma: sulla base, in altri termini, delle “finalità perseguite dall'incriminazione e del più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca”, come costantemente ricorda il Giudice delle leggi segnalando la necessità di verificare il rispetto del principio di determinatezza mediante il ricorso al criterio, altresì, dell'offesa (tra molte: Corte cost., sentenze n° 327 del 2008, n° 5 del 2004, n° 34 del 1995, n° 122 del 1993, n° 247 del 1989; ordinanze n° 395 del 2005, n° 302 e n° 80 del 2004).
Non importa, quindi, il numero dei parametri utilizzati, ma il livello di certezza, e quindi di riconoscibilità, che essi sono in grado di conferire, oggettivamente e senza contraddizioni, all'individuazione di un significato in tutto o in parte diverso rispetto a quello adottato nel diverso ramo del diritto. 
Non può negarsi, all'inverso, che alcuni termini che hanno uno specifico significato tecnico-giuridico in altra branca del diritto, siano impiegati nella legge penale attribuendo loro un significato tratto dal "linguaggio comune", fatto proprio e utilizzato dalla norma penale ai propri fini.
Esempi di questa duplicità di accezioni sono per l'appunto tradizionalmente individuati nell'uso, nelle fattispecie penali, delle locuzioni di "possesso" e "detenzione", di "altruità" e proprietà, per le quali è opinione risalente e consolidata che esse non designano l'esatto equivalente degli omonimi concetti propri del diritto civile.
Pure una stabile tradizione interpretativa, esercitata nel rispetto del principio di legalità, può d'altra parte confluire a conformare le norme assicurando al sistema sanzionatorio quel livello di prevedibilità che, come efficacemente ricordato dall'Avvocato Generale nella requisitoria odierna richiamando copiosa giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo (tra molte: sentenze 05.04.2011 S. c/ Italia; 17.05.2010, K. c/ Estonia; .3.11.2009, S. c/Bosnia-Erzegovina), costituisce garanzia sia per i destinatari dei precetti sia per l'ordinamento obiettivo: anche l'effetto di prevenzione generale degli illeciti presupponendo che il testo normativo sia uniformemente interpretato e reso così riconoscibile dai consociati.
12.1. Il problema interpretativo di cui si è occupata la sentenza n° 1327/04, che è ora riproposto alle Sezioni Unite, concerne in particolare l'individuazione della portata normativa del termine "altrui" impiegato nell'art. 646 C.P. per definire l'oggetto della "appropriazione" penalmente rilevante, posta in essere dal "possessore", su denaro o bene fungibile.
Nella struttura della norma la condizione di "altruità" del bene si contrappone dunque a quella di mero "possessore" dell'agente, che, appropriandosene, pone in essere, per usare una definizione usuale, una interversione del possesso.
La nozione di altruità non può per conseguenza prescindere, in primo luogo, dalla nozione di possesso.
12.2. Ora, è osservazione unanime, in giurisprudenza e dottrina, che il termine "possesso" è numerosissime volte adoperato nel codice penale con significato del tutto equivalente a quello di "detenzione".
La promiscuità dell'uso è particolarmente evidente in tutte le disposizioni che si riferiscono ad ipotesi di detenzione o possesso in sé illegali o sanzionati per la provenienza illecita dei beni cui si riferiscono.
Parimenti, nell'ambito dei reati che hanno a specifico oggetto la tutela del patrimonio, pubblico o privato che sia, il "possesso" non appare distinguibile, secondo l'esegesi oramai tradizionale, dalla "detenzione", purché autonoma.
I due termini, correlati a quelli di "altruità" e di "patrimonio", lungi dal connotare di significati civilisti le condotte cui si riferiscono, fungono così piuttosto da criteri denotativi, e vanno letti in funzione della delimitazione in negativo, prima ancora che della perimetrazione in positivo, delle condotte incriminate.
L'analisi del significato da attribuire nella specifica fattispecie incriminatrice in esame al termine "altrui", riferito a bene fungibile posseduto da altri, richiede, per conseguenza, di considerare altresì le linee di demarcazione tra le varie figure criminose che hanno ad oggetto la tutela del medesimo bene, il patrimonio privato, e i profili di corrispondenza con le fattispecie, analoghe, che concernono il patrimonio pubblico.
12.3. È egualmente considerazione condivisa che come la sottrazione a chi autonomamente detiene la cosa é elemento costitutivo del furto; così, specularmente, l'autonoma detenzione non derivante da sottrazione integra il possesso rilevante per l'appropriazione indebita. Nella nozione di possesso rilevante per l'appropriazione indebita possono rientrare vari casi di detenzione, ma, perché resti saldo il confine tra fattispecie, il minimo richiesto è che si tratti di detenzione in nome proprio e non in nome altrui, ossia in virtù di un rapporto di dipendenza con il titolare del diritto (tra molte: Cass. Sez. 6, n° 32543 del 10.05.2007, rv. 237175; cass. Sez. 2, n° 4853 del 20.12.1993, rv. 197781).
È, d'altra parte, significativo (come puntualmente osserva Cass. Sez. 6, n° 5447 del 04.11.2009, rv. 246070) che in relazione al peculato, figura omologa all'appropriazione indebita nell'ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione, il legislatore, con la riforma del 1990, abbia affiancato nell'art. 314 C.P. alla nozione di "possesso" quella di "disponibilità", così espressamente riconducendo il rapporto dell'agente con la cosa nell'ambito “di un ampio potere autonomo, che gli consenta di disporne, con obbligo tuttavia di rispettarne la destinazione”, in linea con l'interpretazione già consolidata in relazione ad entrambe le fattispecie appropriative.
12.4. Parallelamente, proprio la considerazione del denaro, che è bene fungibile per eccellenza, come possibile oggetto dell'appropriazione di cosa altrui, rende palese che il legislatore non ha inteso utilizzare la nozione di altruità nel senso, strettamente civilistico, di proprietà distinguibile dalla disponibilità.
Per il diritto civile la proprietà delle cose fungibili si trasferisce, per specificazione e separazione, con il trasferimento del possesso, e il denaro è perciò destinato a confondersi con il patrimonio di chi lo possiede, né in relazione ad esso sono configurabili diritti reali di terzi. Anche nel caso che taluno abbia ricevuto da altri una somma, per custodirla o per impiegarla in un certo modo, incombe sull'accipiente soltanto l'obbligo di rendere o di impiegare l'equivalente, a scadenza, secondo pattuizione, non il divieto di farne, nel frattempo, uso.
Il riferimento, nell'art. 646 C.P., al possessore di denaro altrui, è invece indice certo che per il diritto penale la regola della indistinguibilità tra disponibilità e proprietà di cose fungibili non può valere indiscriminatamente.
Deve per altro rammentarsi che se nel diritto civile proprietà e diritti reali consistono nella signoria sulla cosa che si acquista nei modi stabiliti dalla legge, mentre il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale (esercitabile direttamente o per mezzo di chi ha la detenzione), non suscettibile di trasferimento per atto tra vivi disgiuntamente dalla proprietà o dal diritto reale del quale costituisce l'esercizio (Sez. Un., n° 7930 del 27.03.2008, rv. 602815), va da sé che tali nozioni legali interessano poco il diritto penale patrimoniale in generale, e la fattispecie recata dall'art. 646 C.P. in particolare, che guarda invece, e sanziona, proprio la rottura unilaterale delle relazioni di subordinazione o derivazione, secondo diritto, tra poteri di fatto e titolo legittimo per l'esercizio di essi poteri sulle cose.
Ciò comporta, tuttavia, che, ferma l'autonomia dell'accezione con la quale le nozioni di "possesso" o bene "altrui" sono usate nella fattispecie in esame, la individuazione delle situazioni che realizzano una rottura degli schemi delle relazioni legali tra titolo e potere esercitato, tanto grave per l'ordine economico da essere punibile a titolo di appropriazione indebita, non può prescindere dal considerare la relazione violata e, perciò, la diversità di natura, nell'ambito del diritto civile, dei rapporti patrimoniali intercorrenti tra le parti.
12.5. Così, nonostante l'ampliamento della nozione di "altruità", nulla consente di ricondurre ad essa qualsivoglia diritto di credito, fosse anche liquido ed esigibile.
Impedisce, al contrario, di considerare costitutiva di appropriazione indebita ogni condotta di inadempimento di un'obbligazione che veda come prestazione o controprestazione, seppure "vincolata", la dazione a un terzo di una somma di denaro, se non altro il fatto che l'inadempimento di una mera obbligazione è già sanzionata penalmente - e più lievemente - dall'art. 641 C.P., ma esclusivamente nell'ipotesi in cui essa sia stata assunta, ab origine, con il proposito di eluderla e dissimulando lo stato d'insolvenza.
Efficace indicazione per una regolazione di confini proviene da Cass. Sez. 2, n° 7770 del 09.02.2010 (non massimata), laddove osserva che sarebbe irragionevole “assegnare ad una stessa condotta materiale di interversione del possesso una portata differenziata a seconda della natura del bene - fungibile o infungibile - quando è lo stesso testo normativo a parificare sotto questo profilo il precetto, facendo espresso riferimento, quale oggetto della condotta appropriativa, al denaro o ad altra cosa mobile altrui”.
È la stessa formulazione normativa, in altre parole, che impone all'interprete di considerare il denaro, al quale l'agente ha dato una destinazione diversa da quella dovuta, come se fosse una qualsiasi altra cosa mobile infungibile.
Se denaro o cosa facevano parte del patrimonio dell'inadempiente quando ha assunto l'obbligo di impiegarli o destinarli a favore di un terzo, egli sarà senz'altro responsabile con l'intero suo patrimonio per l'inadempimento, ma non potrà essere sottoposto ad azione di rivendicazione né potrà imputarglisi alcuna interversione del possesso o condotta appropriativa.
Se l'inadempiente ha invece ricevuto il denaro o la cosa per impiegarli o destinarli nell'interesse del terzo, la sua condotta di apprensione (impropriazione) e sottrazione (espropriazione) del bene alla destinazione in vista della quale ne aveva acquisito la disponibilità, costituirà, che abbia o non abbia ad oggetto un bene infungibile suscettibile di rivendicazione, appropriazione indebita rilevante ai sensi dell'art. 646 C.P.
13. In conclusione, non può che essere ribadito che la regola della acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della nozione di altruità accolta nell'art. 646 C.P.; ma, non ricorrendo alcuna ipotesi di conferimento di denaro ab externo, il mero inadempimento ad opera del datore di lavoro dell'obbligazione di retribuire, con il proprio patrimonio, il dipendente e di far fronte per esso o in sua vece agli obblighi fiscali, retributivi o previdenziali, non integra la nozione di appropriazione di denaro altrui richiesta per la configurazione del delitto di cui all'art. 646 C.P.
Più in generale, il principio è che può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita colui che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impiego vincolato, se l'appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta.
Possono indicarsi, a mero titolo esemplificativo, le ipotesi di denaro o beni fungibili conferiti come mezzo per l'esecuzione di una qualche forma di mandato ovvero riscossi dal rappresentante per conto del rappresentato o in esecuzione di un mandato senza rappresentanza, dati in deposito o pegno irregolare o - non potendosi escludere in astratto un tale tipo di contratto avente oggetto, ad pompam, cose fungibili - in comodato, come caparra o a garanzia, per il conferimento o l'impiego in fondo patrimoniale separato.
Non potrà invece ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia ad obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo.
14. Deve affermarsi per conseguenza che “non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di retribuzione dovuta al lavoratore e da questo ceduta al terzo”.
15. L'Avvocato Generale, sulla scorta di considerazioni sostanzialmente analoghe, ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Ritiene il Collegio, in aderenza agli argomenti esposti e alla luce dell'imputazione formulata, che la sentenza impugnata debba essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
La formula "il fatto non è previsto dalla legge come reato" va riferita all'ipotesi della mancanza di una qualsiasi norma penale cui possa ricondursi il fatto imputato.
La formula "il fatto non sussiste" va invece impiegata nel caso di difetto di un elemento costitutivo, di natura oggettiva, del reato contestato (Sez. Un., n° 40049 del 29.05.2008, rv. 240814).
L'adozione della prima formula dipende, perciò, dal tenore formale dell'addebito, dalla circostanza cioè che con esso si assume la riconducibilità della fattispecie concreta ad una fattispecie astratta mai esistita, abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima.
Mentre, quando il fatto storico, così come ricostruito, non è idoneo ad essere assunto nella fattispecie astratta, occorre adottare la seconda.
Se, dunque, al ricorrente fosse stato formalmente addebitato d'essersi appropriato denaro proprio, si sarebbe dovuto dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Poiché gli é stato contestato d'essersi appropriato denaro altrui ("di pertinenza della dipendente", recita il capo d'imputazione), ma sull'erroneo presupposto che le somme da lui trattenute, come datore di lavoro, dallo stipendio della lavoratrice dovessero per ciò solo considerarsi trasferite in proprietà di questa, deve ritenersi che fa difetto nella fattispecie concreta l'elemento dell'altruità del bene, costitutivo della fattispecie astratta di appropriazione indebita.
Va dichiarato di conseguenza che il fatto-reato contestato non sussiste.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

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