Penale

PENALE - Telefono spia nell'auto e ascolto di comunicazioni.

plafoniera

Il Tribunale della libertà potentino ha pronunciato, a fine 2008, un'interessante ordinanza sul tema del telefonino "silenziato" installato in modo occulto nell'abitacolo di una autovettura per l'ascolto delle convesrazioni altrui.
La collocazione di uno strumento di captazione sonora all'interno dell'abitacolo di un'autovettura non integrerebbe l'installazione di "apparati, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare [...] comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche" o altre "trasmissioni a distanza di suoni, immagini o altri dati", ai sensi degli artt. 617-bis e 623-bis c.p.
Strutturalmente il "telefono spia" viene installato

al fine di captare i suoni che vengono generati all'interno dell'abitacolo dell'auto e, di regola, essi rimangono all'interno di tale spazio, e non d'intercettare flussi di suoni, immagini o altri dati trasmessi a distanza, anche nel caso in cui uno degli occupanti della vettura parli al telefono.
In tali casi il telefono "spia" è lo strumento attraverso cui viene effettuata l'intercettazione abusiva, il quale non muta, però, l'oggetto di tale intercettazione, che è sempre una comunicazione tra presenti, non connotata dalla trasmissione a distanza di dati, poiché tale telefonino non si inserisce in alcun canale idoneo alla trasmissione tra soggetti assenti.
Un'eventuale video-ripresa abusiva (cioè eseguita senza il consenso del captato e in spregio dalle forme di cui agli artt. 266-271 c.p.p.) al di fuori dei luoghi di privata dimora, alla stessa stregua delle intercettazioni abusive di conversazione e comunicazioni tra presenti e captate sempre in luoghi diversi rispetto a quelli contenuti nell'art. 614 c.p., pur essendo sicuramente compiuta in violazione dei principi costituzionali sanciti dagli artt. 14 e 15, comma II, Cost., non è per ciò solo oggetto di tutela penale garantita dall'art. 615-bis c.p., che  tutela dalle interferenze nella vita privata solo nei luoghi di cui all'art. 614 c.p.
Ma la mancanza di una sanzione penale per tali condotte non implica per ciò solo la possibilità che i risultati di tali abusive interferenze nella vita privata altrui possano essere utilizzati a fini probatori in un eventuale processo penale: dovendo tali videoriprese essere considerate prove atipiche acquisite in palese violazione di principi di rango costituzionale e delle forme di cui agli artt. 266 e 271 c.p.p. (che, in virtù dell'art. 15, comma II, Cost. operano quale fattore scriminante della lesione del principio dell'inviolabilità della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione), le prove di tal fatta sarebbero radicalmente inammissibili, prima ancora che inutilizzabili, attesa la riferibilità di quest'ultima categoria alle sole prove tipiche.

 

Tribunale di Potenza, Sez. per il Riesame, 19.12.2008

TRIBUNALE DI POTENZA
Sezione Riesame

Il  Tribunale  delle impugnazioni in materia di libertà del Distretto
di Corte di Appello di Potenza,
composto dai magistrati:
dott. Luigi Spina, Presidente
d.ssa Michela Petrocelli, Giudice
dott. Antonio Cantillo, Giudice rel.
Riunito in camera di consiglio, ha pronunciato la seguente

ORDINANZA


Sugli  appelli  riuniti,  proposti  da  P.A.  e  dalla  Procura della Repubblica  in  sede,  con  atti rispettivamente depositati presso la Cancelleria  di  questo  Tribunale  il  22.11.2008  ed il 27.11.2008,
avverso  l'ordinanza  emessa  dal  GIP  del  Tribunale  di Potenza il 17.11.08,  con  la  quale, per un verso, è stata applicata a P.A., in relazione    a   solo  reato  di  cui  al  capo  G)  dell'imputazione
provvisoria  riportata  nell'epigrafe  dell'ordinanza  impugnata,  la misura  cautelare  interdittiva  della sospensione dall'esercizio del pubblico  ufficio  di  (omissis) presso la Questura di (omissis),  e, 
per  altro  verso,  sono  state  rigettate le ulteriori richieste  cautelari  formulate dal P.M. nei confronti di P.A. e D.G. con la richiesta del 29.10.08,

OSSERVA

Fatto
1. Con atto del 29.10.08 il P.M. in sede ha formulato richiesta cautelare volta ad ottenere l'applicazione, nei confronti di P.A., in relazione ai reati di cui agli artt. 615-bis, 314 e 323 c.p. (capi A, C e G dell'imputazione provvisoria in atti), della misura cautelare degli arresti domiciliari o, in subordine, della sospensione dall'esercizio del pubblico ufficio (omissis) presso la Questura di (omissis), e, nei riguardi di D.G., in relazione al solo reato di cui al capo A) della rubrica accusatoria, della misura dell'interdizione dall'esercizio dell'attività imprenditoriale.
Il GIP del Tribunale di Potenza, con ordinanza del 17.11.08, accogliendo solo in parte le richieste della Procura, ha applicato al P. la misura della sospensione dall'esercizio del pubblico ufficio di (omissis) e ha rigettato le altre istanze cautelari. Nel provvedimento in parola, in particolare, il giudice di prime cure ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza a carico di P.A. in relazione al solo reato di abuso di ufficio contestato al capo G) della rubrica, escludendo la giuridica configurabilità del reato di cui al capo A) e reputando insufficienti gli indizi in relazione al reato di peculato delineato nel capo C); ha, inoltre, valutato la ricorrenza, nella fattispecie, dell'esigenza cautelare di cui all'art. 274, lett. c), c.p.p., con esclusione di quella di cui alla lett. a) della stessa norma. Di conseguenza, ha rigettato tout court la richiesta cautelare ai danni di D.G., ed ha accolto la sola richiesta subordinata formulata dall'accusa nei riguardi di P.A., evidenziando come i limiti edittali previsti per il reato di cui all'art. 323 c.p. non consentano l'applicazione della misura custodiale chiesta in via principale dal P.M.
Avverso tale ordinanza hanno proposto gravame sia l'indagato P.A. che la Procura della Repubblica in sede.
Nell'appello proposto dal P. il provvedimento applicativo della misura è stato censurato sia sotto il profilo della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato per il quale è stata disposta la cautela sia con riguardo alla ricorrenza delle esigenze cautelari, evidenziandosi, sotto il primo profilo, che il P. non avrebbe mai abusato dei poteri connessi alla sua funzione, bensì avrebbe, al più, abusato della sua qualità, senza strumentalizzare mai a fini privati l'esercizio delle pubbliche funzioni a lui assegnate, e, sotto il secondo profilo, che i fatti in considerazione sarebbero strettamente e direttamente connessi al rapporto sentimentale intercorso tra il P. e la sig.ra M., risultando essere stati compiuti esclusivamente fino all'ottobre-novembre 2007, sicché, essendo definitivamente cessato ogni rapporto dell'indagato con la M. e non risultando nuovi fatti di reato successivi alla fine del 2007, il pericolo di reiterazione dei reati sarebbe, allo stato, venuto meno.
L'impugnazione del P.M., all'opposto, si è rivolta avverso la statuizione del G.I.P. con la quale sono state rigettate parte delle originarie richieste cautelari dell'organo inquirente. Segnatamente la Procura, con diffusa e pregevole argomentazione, ha dedotto: a) l'erroneità della decisione del primo giudice laddove quest'ultimo ha escluso che la condotta descritta nel capo A) dell'imputazione possa essere ricondotta ad un qualsivoglia illecito penale, posto che, al contrario, a parere dell'accusa, il fatto - per i motivi che si esamineranno in prosieguo - potrebbe sicuramente rientrare nell'alveo applicativo dell'ipotesi incriminatrice di cui all'art. 615-bis c.p. o, quanto meno, dell'art. 617-bis c.p.; b) la sussistenza, alla luce degli elementi raccolti in fase di indagine, dei gravi indizi di colpevolezza a carico del P. anche con riferimento al reato di peculato contestato al capo C) della rubrica. Per tali motivi l'appellante ha sollecitato al tribunale della libertà l'annullamento dell'ordinanza impugnata nella parte in cui ha rigettato le richieste di applicazione degli arresti domiciliari a carico di P.A. e di interdizione dall'esercizio dell'attività imprenditoriale ai danni di D.G.
All'udienza camerale del 9.12.2008, nulla opponendo le parti (le quali, peraltro, hanno entrambe, esplicitamente o implicitamente, rinunciato ai termini a difesa previsti a loro favore), i due appelli sono stati riuniti. La difesa del P. e del D. ha, poi, prodotto alcuni documenti (specificamente indicati nel verbale di udienza, la cui rilevanza è stata contestata dal P.M.) ed, in via preliminare, ha eccepito l'inammissibilità dell'appello proposto dal P.M. per la mancanza della specifica riproposizione delle esigenze cautelari implicitamente disattese dal G.I.P.
Le parti, infine, hanno concluso per l'accoglimento dell'appello rispettivamente proposto e per il rigetto dell'appello avanzato ex adverso.
2. L'ordinanza impugnata va confermata in tutte le sue statuizioni, non potendo essere accolto, per le ragioni che seguono, nessuno dei due appelli in discussione.
Va, preliminarmente, richiamata, quanto alla complessiva ricostruzione della vicenda in parola, l'esaustiva descrizione dei fatti e degli elementi accusatori contenuta nell'ordinanza impugnata alle pagg. da 5 a 10, la quale, onde evitare inutili ripetizioni, è da intendersi qui integralmente riproposta.
Ciò premesso, occorre, dunque, passare dalla disamina degli specifici motivi di gravame formulati dalle parti, partendo, per ragioni di linearità e di speditezza dell'esposizione, da quelli proposti dalla difesa dell'indagato P.
Quest'ultimo - come accennato in narrativa - ha censurato la ricostruzione dei fatti accolta dal G.I.P., con specifico riferimento ai gravi indizi attinenti all'ipotesi delittuosa di cui al capo G), asserendo che gli elementi raccolti in fase di indagine non dimostrerebbero adeguatamente che nella vicenda il P. abbia fatto uso dei suoi poteri, o che egli abbia agito nell'esercizio delle sue funzioni, bensì darebbero atto della sola circostanza che il P. (libero da ogni impegno di sevizio) abbia colto l'occasione di un controllo di P.S. già iniziato dagli operanti Isp. S. e Ass. C. per intervenire sul posto ed ivi ingiuriare e minacciare il P., così abusando unicamente della sua qualità di esponente di rilievo delle forze dell'ordine nel territorio lucano, senza, però, strumentalizzare a fini privati i poteri inerenti alla sua funzione ed al suo rapporto di servizio.
La tesi, ad avviso di questo Collegio, non trova riscontro nei dati investigativi sin qui acquisiti.
Appare, invero, del tutto convincente il ragionamento svolto dal G.I.P. alle pagg. da 15 a 18 della sua ordinanza (che si abbiano qui per trascritte), laddove il primo giudice evidenzia come sussistano elementi indizianti gravi ed univoci dai quali si desume che il controllo di P.S. operato nei confronti del P. il 9.10.07 sia stato effettuato nella completa assenza delle condizioni che legittimano tale tipo di attività ad opera degli esponenti delle forze dell'ordine e sia stato compiuto unicamente sulla base di una precedente indicazione data dal P. allo S. (sotto forma di ordine o, come parrebbe più probabile, sulla base di un'intesa tra i due) e nell'interesse esclusivo del primo, il quale in tal modo ha raggiunto il duplice obiettivo di intimidire e minacciare il P., offrendo, al contempo, una chiara dimostrazione del suo potere e della sua capacità di incidere in modo potenzialmente assai lesivo sulle attività esistenziali della vittima, proprio in virtù dell'esercizio distorto delle facoltà connesse alla propria elevata posizione gerarchica all'interno della Questura (omissis).
Ciò è dimostrato in modo netto da plurimi dati indiziari: a) in primo luogo dal contenuto delle sommarie informazioni rese dall'Ass. C. al P.M. in sede il 6.11.08, dalle quali emerge con chiarezza che gli operanti di P.S. non procedettero al controllo della (omissis) su cui viaggiava P.M. sulla scorta di una segnalazione via radio proveniente dalla centrale operativa, né compirono il controllo di loro iniziativa, in base all'osservazione di condotte o di movimenti "sospetti" da parte dell'occupante dell'auto o, comunque, di altri soggetti che siano entrati in contatto con la vettura in questione, bensì agirono esclusivamente sulla base di una segnalazione pervenuta direttamente all'Isp. S. (comunicatagli poco prima dell'inizio delle operazioni di pedinamento e controllo o, addirittura, prima dell'inizio del servizio esterno di pattuglia); b) dal fatto che il P., grazie al sistema di captazione attivo sulla vettura di M.E. (la quale a sua volta comunicava telefonicamente con il P.), era in grado di conoscere la posizione ed i movimenti della vettura di P.M., sicché era sostanzialmente l'unico che avrebbe potuto comunicare allo S. il luogo ove si trovava la (omissis) da sottoporre a controllo; c) dalla circostanza che il P. è celermente intervenuto sul luogo del controllo ed ivi ha posto in essere la condotta delittuosa offensiva e minacciosa descritta dal P., con ciò palesando chiaramente il reale scopo e la finalità ultima del controllo.
In sostanza, le circostanze che precedono consentono di escludere la verosimiglianza della tesi secondo cui il P. si sarebbe limitato ad intervenire sul luogo ove si stava eseguendo il controllo dopo che i suoi colleghi avevano già autonomamente e di propria iniziativa proceduto a fermare la vettura del P., limitandosi, quindi, a cogliere al volo la propizia occasione per formulare le proprie minacce. Al contrario, appare certo che il controllo de quo si è svolto essenzialmente su ordine o, comunque, su richiesta del P., senza che ricorresse alcuna altra contingenza che potesse giustificare il compimento di detta attività di P.S.
Se ciè è vero, appare indiscutibile la sussistenza dei gravi indizi del reato di abuso di ufficio, sia nell'ipotesi in cui lo S. abbia agito in esecuzione di un ordine diretto del P. sia - come parrebbe più verosimile - nel caso in cui il predetto Isp. abbia proceduto al controllo non sulla scorta di un ordine, ma in base ad un previo concerto con il (omissis) P., prestandosi consciamente a collaborare nel disegno criminoso del superiore.
Nel primo caso, infatti, il P., per un vantaggio personale e per recare danno al P., avrebbe impartito al proprio sottoposto S. un ordine (quello di seguire e sottoporre a controllo l'auto del P.) adottato in violazione di legge; ordine da considerarsi illegittimo in quanto affetto, come esattamente affermato dal G.I.P. a pag. 18 dell'ordinanza in esame, da un chiaro sviamento di potere, ossia da un tipo di patologia dell'atto amministrativo che la più recente e condivisibile giurisprudenza della Suprema Corte riconduce, appunto, al vizio di violazione di legge (cfr., oltre a Cass. pen. n. 12196 del 2005, già citata dal G.I.P., Cass. pen., sez. VI, n. 28389 del 23.6.2004 e Cass. pen., sez. VI, n. 38965 del 24.11.2006).
Nella seconda ipotesi, invece, l'attività amministrativa illegittima sarebbe essenzialmente da ascrivere, nella sua materialità, allo S., e, tuttavia, il P. - anche a volerlo considerare un extraneus ove si ritenga che in quel momento non fosse nell'esercizio delle sue funzioni - sarebbe del pari responsabile del reato, in concorso con l'intraneus (ossia con il pubblico ufficiale che, nell'esercizio delle sue funzioni, ha materialmente ha adottato l'atto illegittimo), quale coautore del fatto, avendo, di fatto, partecipato anch'egli al controllo del P., o, comunque, quale istigatore o determinatore, avendo contribuito direttamente, ed in modo imprescindibile, alla formazione della volontà di colui che ha materialmente posto in essere l'atto illegittimo.
Ne deriva, in conclusione sul punto, la piena sussistenza dei gravi elementi indizianti a carico del P. relativamente alla commissione del reato di cui si discute.
Venendo, poi, alle argomentazioni difensive attinenti alle esigenze cautelari, deve rilevarsi come le stesse non appaiano idonee a scalfire le esatte e condivisibili considerazioni con le quali il G.I.P. ha motivato la sussistenza nel caso di specie del pericolo di reiterazione di reati della stessa indole (art. 274, lett. c, c.p.p.).
Ed, invero, non può ritenersi che la cessazione da circa un anno del rapporto personale-sentimentale tra il P. e la M. sia un elemento idoneo ad escludere in radice la futura possibilità di reiterazione del reato.
Il giudizio di pericolosità espresso dal G.I.P., infatti, pur traendo spunto dalle condotte commesse dal P. nel periodo conclusivo del menzionato rapporto sentimentale, non è stato collegato alla permanenza della relazione in questione, bensì, condivisibilmente, alla personalità del P., per come la stessa è emersa dal tipo di condotte tenute dall'indagato nella fase conclusiva del rapporto personale de quo.
In particolare, nel corso del travagliato periodo finale della vicenda sentimentale con la M., il P. ha dimostrato una sostanziale incapacità, in periodi di instabilità emotiva ed in presenza di eventi altamente coinvolgenti sotto il profilo emozionale, di separare nettamente la sfera personale dal ruolo istituzionale ricoperto, lasciando che i sentimenti e le pulsioni attinenti alla sua vita privata incidessero, a più riprese ed in varie forme, sulle modalità di esercizio delle sue funzioni d'ufficio e sulla complessiva gestione della sua qualifica. In sostanza l'indagato ha dimostrato una certa propensione, soprattutto in momenti delicati e problematici della sua vita privata, ad utilizzare i poteri e l'autorità scaturenti dalla pubblica funzione ricoperta per soddisfare i propri interessi personali, spendendo a fini individuali la propria qualifica o, addirittura, strumentalizzando agli stessi fini gli atti del proprio ufficio.
Tale profilo della personalità del P. rende concreto il rischio che l'indagato, ove si trovi nuovamente a vivere un periodo turbolento dal punto di vista personale-esistenziale (anche non strettamente relativo alla vita sentimentale), possa addivenire ancora alla commissione di condotte del tipo di quelle in contestazione, cioè connotate dall'utilizzazione strumentale e privatistica delle funzioni connesse qualità di pubblico ufficiale. E ciò indipendentemente dagli sviluppi futuri della relazione con la M., la quale appare, in realtà, essere stata solo un'occasionale causa scatenante la quale ha attivato la naturale propensione del P. all'uso distorto dei suoi poteri, nei sensi sin qui descritti.
L'ordinanza cautelare va, quindi, confermata con riguardo alle statuizioni concernenti il quadro cautelare a carico del P., ivi comprese le valutazioni relative alla proporzionalità ed adeguatezza della misura prescelta dal G.I.P., rispetto alle quali è sufficiente qui richiamare, stante anche la mancanza di specifiche censure difensive sul punto (e rimandandosi, con riferimento ai motivi di appello proposti al riguardo dal P.M., alle valutazioni che saranno sviluppate in prosieguo), quanto esaurientemente espresso dal primo giudice alla pag. 19 del provvedimento appellato.
Alla soccombenza dell'appellante segue, ex lege, la condanna di quest'ultimo al pagamento, per quanto di competenza, delle spese del procedimento,
3. Esaurita la disamina dei motivi di gravame formulati dall'indagato P., occorre, dunque, prendere in esame il gravame proposto dalla pubblica accusa.
Al riguardo deve essere, in primo luogo, rigettata l'eccezione di inammissibilità dell'appello formulata dalla difesa degli indagati appellati.
Questi ultimi, come si è detto, hanno dedotto che il P.M. avrebbe avuto l'obbligo di censurare specificamente le valutazioni in tema di esigenze cautelari già rese dal G.I.P., reiterando le argomentazioni in tema di esigenze cautelari che giustificherebbero l'applicazione delle misure rigettate dal giudice di prime cure.
Sul punto deve osservarsi, innanzitutto, che nel suo atto di appello, a pag. 4, la Procura si è specificamente riportata a "tutte le osservazioni ed argomentazioni in punto di fatto e diritto esposte nella richiesta di misura cautelare a carico degli indagati del 28.10.08 e nelle memorie integrative depositate al Gip", sicché detto richiamo complessivo deve intendersi come esteso anche alle valutazioni in tema di esigenze cautelari che erano state originariamente rappresentate al GIP dall'A.G. appellante.
A ciò si aggiunga che il GIP, nella motivazione dell'ordinanza impugnata, non ha espresso alcuna valutazione cautelare con riferimento alla posizione di D.G., mentre, relativamente alla persona di P.A., ha riconosciuto la sussistenza dell'esigenza cautelare di cui alla lett. c) dell'art. 274 c.p.p., escludendo quella di cui alla lett. a) del medesimo articolo, non compiendo, però, specifiche valutazioni in ordine alla proporzionalità ed adeguatezza della misura cautelare degli arresti domiciliari, in ragione della tecnica impossibilità di addivenire all'applicazione di tale misura a seguito della esclusione dei gravi indizi di colpevolezza rispetto ai reati di cui ai capi A) e C) dell'imputazione.
Ne deriva che la Procura, per sostenere le proprie domande in sede di appello, non avrebbe potuto in alcun modo sviluppare delle considerazioni critiche di qualsivoglia genere in merito ai due cennati profili delle esigenze cautelari a carico del D. e della sussistenza dei requisiti di proporzionalità ed adeguatezza alla fattispecie della misura custodiale richiesta per il P., essendo unicamente obbligata a richiamare - come puntualmente ha fatto - gli argomenti già da lei sviluppati in sede di richiesta, posto che le questioni non erano state affatto esaminate nell'ordinanza impugnata giacché il GIP aveva rigettato "a monte" le due richieste de quibus (per l'insussistenza dei gravi indizi dei reati che le sostenevano) prima ancora di giungere all'esame di detti profili. E' chiaro, in conclusione, che nella fattispecie è corretto che l'impugnazione si sia soffermata solo sulla disamina critica dei motivi logicamente "pregiudiziali" in base ai quali il GIP ha escluso l'accoglibilità di parte delle richieste originarie, e si sia limitata, quanto ai profili conseguenziali non affrontati dal primo giudice, al richiamo delle considerazioni espresse in precedenza, attesa l'oggettiva impossibilità di sottoporre a censura il provvedimento impugnato per la mancanza di qualsiasi decisione esplicita sul punto. (omissis)
Venendo, dunque, ai motivi di appello addotti dalla Procura, va affrontato per primo quello attinente al carattere delittuoso o meno della condotta descritta nel capo A) dell'imputazione, che l'accusa ha ritenuto suscettibile di integrare l'ipotesi di reato p. e p. dall'art. 615-bis c.p. o, in via alternativa e subordinata, quella sanzionata dall'art. 617-bis del medesimo codice.
Come si è accennato in narrativa, infatti, il primo giudice ha escluso che il comportamento addebitato al P. ed al D. - che, come si evince chiaramente dal capo di imputazione, si è sostanziato nell'installazione all'interno dell'abitacolo della autovettura di M.E., occultato dentro il vano luce ivi esistente, di un telefono cellulare su cui era impostata la funzione di risposta automatica con suoneria disattivata, il quale consentiva al P., mediante l'effettuazione di semplici chiamate al telefono "spia", di ascoltare indebitamente i suoni (ivi comprese, ovviamente, le parole) generati da fonti sonore interne all'autovettura de qua e percepibili in detto contesto spaziale, con l'evidente finalità di apprendere notizie attinenti alla vita privata della M. e delle persone che con quest'ultima venivano in contatto - sia suscettibile di essere ricondotto nell'alveo di una qualsivoglia previsione penale, attesa, per un verso, l'impossibilità di considerare l'abitacolo dell'auto un'abitazione o un luogo di privata dimora ai sensi e per gli effetti dell'art. 614 c.p. (norma cui fa riferimento l'art. 615-bis cit. al fine di delineare l'ambito oggettivo della sua applicabilità), e, per altro verso, stante l'assenza, nella fattispecie concreta, di un'attività di intercettazione di comunicazioni o conversazioni telefoniche o telegrafiche, cioè di un'attività di captazione di un flusso di informazioni telefoniche o telegrafiche intercorrente tra due diverse fonti all'interno di un canale dal quale dovrebbe essere escluso il non comunicante, che, secondo il GIP, rappresenterebbe la condizione essenziale per l'operatività della tutela penale apprestata dall'art. 617 bis c.p.
Il P.M. ha censurato entrambe le argomentazioni del giudice di prime cure.
Conviene esaminare innanzitutto i motivi sulla base dei quali è stata ritenuta la piena configurabilità, nel caso di specie, dell'art. 615-bis c.p.
In primo luogo parte appellante ha evidenziato come, sebbene l'art. 615-bis c.p. faccia riferimento ai "luoghi indicati nell'articolo 614", non possa stabilirsi un'assoluta coincidenza tra i luoghi di abitazione e privata dimora protetti dall'art. 614 c.p. ed i luoghi all'interno dei quali operi, invece, la tutela apprestata dall'art. 615-bis c.p. Ed, invero, da alcune significative decisioni giurisprudenziali si desumerebbe, appunto, che, essendo in parte differente e più ampio il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all'art. 615-bis c.p. - segnatamente costituito dalla riservatezza e "diritto al rispetto della vita privata" - l'esegeta non sarebbe affatto vincolato all'interpretazione del concetto di "privata dimora" formatosi con riguardo all'art. 614 c.p., potendo detto concetto essere pienamente rivalutato e riempito di contenuto, anche parzialmente differente, in ragione della differente oggettività giuridica della norma, la quale giustificherebbe, appunto, una tutela rafforzata della vita privata, da assicurarsi in ogni luogo stabilmente destinato allo svolgimento della stessa (la Procura ha richiamato, in particolare, Cass. pen, sez. V, n. 10444 del 2006, Cass. pen., sez. V, n. 35497 del 2005, e, per quanto attiene alla individuazione del bene giuridico tutelato, Cass., Sez. Un., n. 26795 del 2006).
In secondo luogo il P.M. ha rilevato che, anche laddove si volesse vincolare l'ambito di operatività dell'art. 615 bis c.p. alla nozione di privata dimora contenuta nell'art. 614 c.p., occorrerebbe addivenire ad un'interpretazione del concetto più estesa di quella accolta dal GIP, giacché in diverse decisioni della Suprema Corte sarebbe stato chiarito che la nozione di privata dimora non va intesa in senso formale e rigido, con esclusivo riferimento alle caratteristiche proprie dello spazio fisico all'interno del quale avviene l'intrusione, ma va desunta anche dalle attività umane che si svolgono in un determinato luogo ed all'utilizzazione concreta che di esso viene fatta dalla vittima, nel senso che costituirebbero privata dimora tutti quei luoghi che assolvono la funzione di proteggere la vita privata e che sono, perciò, destinati al riposo, all'alimentazione, alle occupazioni professionali e all'attività di svago, ivi compreso l'abitacolo di un'autovettura, allorquando nello stesso vengano compiuti atti caratteristici della vita domestica (in tal senso sono state citate: Cass. pen., sez. II, n. 1831 del 1998; Cass. pen., sez. I, n. 2613 del 2004; Cass. pen., sez. IV, n. 7063 del 2000; Cass. pen., n. 4125 del 2006; nonché Corte Cost. n. 88/87). E, a parere dell'appellante, sulla scorta di tale interpretazione, non potrebbe, nella fattispecie, negarsi la sussistenza del reato, atteso che la M. ed il P. utilizzavano concretamente l'autovettura della prima per svolgervi conversazioni ed attività esistenziali tipicamente private ed intime, proprie, appunto della loro vita domestica (come affermato da P.M. nelle S.i.t. rese il 6.11.08).
Le argomentazioni di parte appellante sono sicuramente ben poste e meritevoli della massima attenzione, considerato che la questione della natura, di luogo di privata dimora o meno, dell'abitacolo di un'automobile è stata per lungo tempo controversa sia in dottrina che in giurisprudenza. Proprio in tale luogo, infatti, è socialmente ormai del tutto usuale lo svolgimento di talune manifestazioni esistenziali sicuramente proprie della vita domiciliare (conversazioni private tra presenti o telefoniche, svolgimento di significative porzioni di attività lavorative, esercizio di attività ludiche, etc.), ma, d'altro canto, l'automobile è naturalmente un bene destinato al trasporto dell'uomo o al trasferimento di oggetti da un posto all'altro, normalmente sfornito dei conforti minimi necessari per potervi risiedere stabilmente per un apprezzabile lasso di tempo ed inidoneo, quindi, sia ad una permanenza di lunga durata sia allo svolgimento della maggior parte delle usuali attività tipicamente domestiche. Ne deriva che la qualificazione giuridica di tale spazio appare senza dubbio non agevole per la compresenza delle sopradette connotazioni di segno opposto, che conferiscono al luogo de quo una natura sostanzialmente ibrida.
Prima, però, di affrontare i profili strettamente attinenti all'interpretazione dei concetti di domicilio e privata dimora, occorre esaminare il primo argomento svolto da parte appellante, quello, cioé, con il quale si intende sostenere che la nozione di luogo di privata dimora accolta dal legislatore nella norma incriminatrice di cui all'art. 615-bis c.p. sarebbe differente dalla corrispondente nozione recepita nell'art. 614 c.p.
Ad avviso di questo collegio tale soluzione ermeneutica è sicuramente da rigettare. Il dato testuale contenuto nell'art. 615-bis c.p., che - come detto - fa esplicito richiamo alla utilizzazione di strumenti di ripresa visiva o sonora per procurarsi indebitamente "notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell'articolo 614", rappresenta un ostacolo insormontabile sulla via di una differenziazione del novero dei luoghi di possibile consumazione dei due illeciti e non consente alcun margine interpretativo per giungere ad una distinzione dell'ambito oggettivo degli spazi de quibus. Ove, invero, l'art. 615-bis si fosse limitato a ripetere testualmente le espressioni usate dall'art. 614 c.p., vi sarebbe stato astrattamente un appiglio - salva una più attenta valutazione in concreto della fondatezza della tesi - per sostenere che le espressioni avessero una differente portata oggettiva, giacché in tal caso si sarebbe potuto ipotizzare un diverso valore giuridico delle parole utilizzate dal legislatore in dipendenza del diverso contesto normativo all'interno del quale le stesse erano calate. Ma, a fronte di un esplicito richiamo del legislatore ai "luoghi indicati nell'art. 614", appare francamente impossibile ritenere che gli spazi fisici di svolgimento della vita privata di cui all'art. 615-bis c.p. possano essere diversi da quelli tutelati dal reato di violazione di domicilio.
Ed, in effetti, la lettura suggerita dalla Procura è smentita dalle motivazioni di pressoché tutte le sentenze che hanno affrontato la questione, le quali hanno indifferentemente utilizzato gli argomenti ed i ragionamenti svolti con riguardo all'interpretazione dell'art. 614 c.p. anche al fine di riempire di contenuto la previsione di cui all'art. 615-bis c.p.; né la soluzione opposta, mai affermata esplicitamente dalla Suprema Corte, appare desumibile, neppure implicitamente, dalla sentenza n. 10444 del 2006 (citata dalla Procura a sostegno dell'assunto), la quale, dopo aver sottolineato che il delitto di cui all'art. 615-bis non postula l'introduzione fisica in uno dei luoghi indicati dall'art. 614 c.p., si limita ad affermare che la nozione di privata dimora si estende ai luoghi ove si svolge il lavoro dei privati (come ed esempio: lo studio professionale, il ristorante, il bar, l'osteria, il negozio in genere), ossia a luoghi già considerati da larga parte della giurisprudenza precedente come sicuramente rientranti tra quelli contemplati dall'art. 614 c.p. (cfr. Cass. pen., sez. V, n. 879 del 1997, Cass. pen., sez. II, n. 1353 del 1985, Cass. pen., sez. V, n. 10531 del 1983, Cass. pen., sez. I, n. 6844 del 1994).
Ne deriva che, rispetto alla nozione di "luogo di privata dimora", va senza dubbio compiuta un'opera ermeneutica unitaria, valevole sia per il reato di cui all'art. 614 che per il delitto di cui all'art. 615-bis c.p. Anzi, deve ritenersi, in consonanza con la giurisprudenza pressoché unanime, che tale nozione non valga solo per le due norme da ultimo citate, ma si estenda anche al disposto del secondo comma dell'art. 266 c.p.p., che, pure, fa richiamo ai "luoghi indicati dall'art. 614 del codice penale".
Da ciò consegue, dunque, che sono da considerare precedenti giurisprudenziali calzanti non solo quelli che hanno esaminato specificamente il concetto di domicilio con riferimento all'art. 615-bis c.p., ma anche quelli che lo hanno fatto ai fini dell'applicazione dell'art. 614 c.p. e dell'art. 266, sec. comma, c.p.p.
Compiendo, a questo punto, una rapida analisi dei più importanti arresti della giurisprudenza di legittimità sulla questione, ci si può agevolmente rendere conto che pressoché tutte le sentenze pronunciate sull'argomento giungono a definire la nozione di privata dimora attraverso il riferimento combinato a tre criteri: la sussistenza di un luogo dal quale il titolare ha il diritto di escludere i terzi da qualsivoglia interferenza non consentita; il tipo di attività esistenziali e domestiche che in esso vengono svolte; la stabilità della relazione tra tali attività e tale luogo. A seconda che si dia maggiore o minore rilievo alla stabilità della destinazione di un determinato spazio allo svolgimento delle attività esistenziali, l'abitacolo dell'autovettura viene ricompreso o meno nella nozione di luogo di privata dimora.
Ed, infatti, alcune pronunce - per la verità numericamente limitate e più datate - assegnando valore primario solo alla natura dell'attività esplicata in un determinato luogo ed allo jus excludendi alios, indipendentemente dalla duratura destinazione del luogo allo svolgimento di dette attività, hanno affermato che "rientrano nel concetto di privata dimora tutti quei luoghi che, oltre all'abitazione, assolvano alla funzione di proteggere la vita privata e che siano perciò destinati al riposo, all'alimentazione, alle occupazioni professionali e all'attività di svago, tra cui va ricompreso l'abitacolo di una autovettura adibita, di regola, ai trasferimenti da e per il luogo di lavoro e di svago" (Cass. pen., sez. II, n. 1831 del 10/06/1998, rv. 211142), nonché, che "ai fini dell'art. 614 c.p., deve intendersi per privata dimora qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente alla esplicazione della vita privata o delle attività lavorative (...), rientrando in esso ogni (...) luogo (...) dove la persona si sofferma per compiere, anche in modo contingente e provvisorio, atti della sua vita privata (di commercio, di lavoro, di studio, di svago ecc.)" (Cass. pen., sez. V, 26 ottobre 1983, L.).
Più recentemente, tuttavia, nell'interpretazione della Suprema Corte si è consolidata la tesi opposta; si è, infatti, in più occasioni ritenuto (in pronunce prevalentemente rese in relazione all'art. 266, comma II, c.p.p.) che i mezzi di trasporto, non siano assimilabili al domicilio, dovendo, altresì, escludersi che l'abitacolo di un'autovettura, in quanto spazio destinato naturalmente al trasporto dell'uomo o al trasferimento di oggetti da un posto all'altro e non ad abitazione, sia luogo di privata dimora, secondo la definizione dell'art. 614 c.p., giacché in esso non si compiono, di norma, atti caratteristici della vita domestica e, soprattutto, esso risulta sfornito dei conforti minimi necessari per potervi risiedere stabilmente per un apprezzabile lasso di tempo (cfr. Cass. pen., Sez. I, 01/12/2005, n. 47180; Cass. pen., Sez. I, 20/12/2004, n. 2613; Cass. pen., Sez. V, 25/05/2004, n. 43426; Cass. pen., Sez. VI, 23/04/2004, n. 26010; Cass. pen., Sez. VI, 01/12/2003, n. 2845; Cass. pen., Sez. VI, 10/12/2002, n. 8009; Cass. pen., Sez. IV, 05/11/2002, n. 3023; Cass. pen., Sez. I, 24/10/2002, n. 41131; Cass. pen., Sez. I, 18/10/2000, n. 3363, Galli; Cass. pen., Sez. VI, 05/10/2000, S., e, da ultimo, proprio in relazione al reato di cui all'art. 615 bis c.p., Cass. pen., Sez. V, n. 12042 del 30/1/2008). In sostanza, l'interpretazione prevalente della Suprema Corte è nel senso che la natura di domicilio o di privata dimora dell'autovettura possa essere affermata solo in quei limitati casi in cui il veicolo venga utilizzato in modo continuativo, o, comunque, per un lasso apprezzabile di tempo, per finalità abitative o esistenziali (si pensi al caso del clochard che abiti in un'automobile, o a colui che abbia stabilmente incentrato nell'abitacolo dell'autovettura o, comunque, del proprio mezzo di trasporto, lo svolgimento di una consistente parte della sua attività lavorativa, come l'autotrasportatore, l'autista, il rappresentante di commercio, o altre ipotesi similari), cioé in quei casi in cui lo spazio interno della vettura venga, per un arco di tempo significativo, destinato in modo ulteriore rispetto alla sua funzione naturale, per assolvere a scopi diversi da quelli che è tipicamente chiamato a soddisfare.
Nel solco di questo filone interpretativo è particolarmente illuminante proprio la sentenza delle SS.UU. n. 26795 del 2006, la quale, nel ricostruire la nozione costituzionale (più ampia) e penalistica (più ristretta) di domicilio, richiama, appunto, quel concetto di stabilità nell'utilizzazione di un determinato luogo privato per lo svolgimento di significative attività della vita privata, con esclusione da non consentite interferenze altrui, cui discende la tutela rafforzata e la protezione della riservatezza di tale luogo e di tali attività ex artt. 614 e ss. c.p.; escludendo, quindi, che il solo svolgimento transeunte di attività riservate in un determinato spazio da cui il singolo abbia il diritto e l'interesse ad escludere terzi (come il priveè ed i bagni di un locale pubblico, per rimanere al caso affrontato dalla Suprema Corte), possa consentire la qualificazione di quello spazio in termini di domicilio. Chiarisce, infatti, la Suprema Corte che: "Non c'è dubbio che il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona e un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perchè il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente (...). Perciò con ragione la giurisprudenza ha introdotto il requisito della "stabilità", perchè è solo questa, anche se intesa in senso relativo, che può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli acquistare un'autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità". E nel caso dell'autovettura è palese che la stessa non possa considerarsi tutelabile, nel caso di assenza del titolare, con le norme di cui agli artt. 614 e sS. se si pensa, soprattutto, che quello che si fa all'interno dell'autovettura è suscettibile di essere visto da tutti. Si pensi, ad esempio, al caso in cui venga forzata la portiera dell'automobile a fine furtivo, laddove, con tutta evidenza, ricorreranno soltanto i reati di tentato furto e di danneggiamento aggravati dall'esposizione del bene alla pubblica fede (aggravante che pare logicamente contrastante con i concetti di domicilio e di riservatezza), ma mai la violazione di domicilio o l'art. 624 bis c.p.; o di prestito della stessa ad un estraneo per le finalità proprie del bene (cioè come mezzo di trasporto), indipendentemente dalla sua titolarità.
Ciò premesso, questo collegio - pur consapevole dell'esistenza di una preoccupante lacuna normativa sotto il profilo della tutela penale della riservatezza, con specifico riguardo all'esercizio delle attività della vita privata in un luogo, l'interno dell'autovettura, in cui sempre più frequentemente ed in misura via via crescente (anche grazie alla rapidissima evoluzione tecnologica dei mezzi di comunicazione) vengono svolte attività di tipo domestico e personale - ritiene di dover aderire all'interpretazione più restrittiva da ultimo esposta.
Ed, invero, al di là della considerazione che tale indirizzo, in ragione del numero di pronunce in cui è stato affermato, è da considerarsi l'opinione consolidata della Suprema Corte (e questo è un dato che, in fase cautelare, non può essere sottovalutato, dovendo il giudice della cautela formulare sempre una prognosi favorevole, in termini prossimi alla certezza, in merito alla condanna dell'indagato all'esito del dibattimento), deve rilevarsi come si tratti soprattutto dell'interpretazione più aderente al principio di tassatività degli illeciti penali, la quale evita eccessive dilatazioni nell'esegesi del dato letterale, che finiscono col superare completamente il chiaro disposto testuale dell'art. 614 c.p.
Non può negarsi, infatti, che i sostantivi "domicilio" e "dimora", attenendo a concetti che, anche nella loro dimensione più ampia, implicano una certa stanzialità, debbano riferirsi, appunto - come affermato esplicitamente o implicitamente dalle sentenze suddette - a luoghi destinati, anche temporaneamente, ma per un periodo di tempo significativo e non occasionalmente, allo svolgimento delle normali attività della vita quotidiana. In tal senso appare utile citare un illuminante passaggio della sentenza Cass. pen., Sez. IV, 16/03/2000, n.7063, ove si afferma: "per quanto possa estendersi la nozione di "privata dimora" prevista dall'art. 614 cod. pen. (e richiamata dal 615-bis) non si può pervenire a darne un'interpretazione completamente svincolata dalla disponibilità, sia pur temporanea, del luogo ove possano svolgersi, non occasionalmente ma per un periodo di tempo significativo, le normali attività della vita quotidiana".
Venendo, pertanto, alla fattispecie in esame, e facendo applicazione di tali principi, deve ritenersi che nel caso in esame non vi siano i presupposti per affermare, in termini di sufficiente gravità indiziaria, che l'autovettura della M. sia stata adibita a domicilio o a privata dimora di quest'ultima, giacché, sebbene, come riferito dal P., all'interno dell'abitacolo di tale auto i due si siano scambiati "confidenze di ogni tipo" attinenti alla loro vita privata familiare, personale ed amicale, ciò appare essere avvenuto in maniera occasionale e casuale, senza che mai l'autovettura abbia assunto quella connotazione di luogo di perdurante svolgimento di dette attività che è necessario per poter ricondurre l'auto alla previsione di cui all'art. 614 c.p., o che abbia acquisito una destinazione diversa da quella che gli è naturalmente propria.
Occorre, a questo punto, vagliare la possibilità, pure affermata dalla Procura come ipotesi subordinata di qualificazione penale del fatto, di ricondurre la fattispecie de qua al reato p. e p. dal combinato disposto degli artt. 617-bis e 623-bis c.p.
Al riguardo parte appellante ha evidenziato che: a) il telefono cellulare istallato dal P. all'interno dell'abitacolo dell'automobile della M. dovrebbe essere incluso nel novero dei mezzi di comunicazione idonei a trasmettere a distanza suoni, immagini o altri dati, sicché, attraverso l'estensione prevista dall'art. 623-bis c.p., dovrebbe essere ritenuto idoneo a costituire un apparato o strumento atto all'intercettazione di comunicazioni o conversazioni il cui uso indebito è vietato ai sensi dell'art. 617-bis c.p.; b) le norme citate, da leggersi alla luce del disposto dell'art. 617-c.p., non postulerebbero, come sostenuto dal GIP, la necessità che l'apparecchio o strumento idoneo all'intercettazione sia in grado di registrare entrambe le fonti sonore, essendo sufficiente che esso capti le parole di uno solo degli interlocutori, purché a lui non dirette; c) in particolare l'espressione "comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche" andrebbe interpretata nel senso che gli aggettivi "telegrafiche o telefoniche" andrebbero riferiti solo al sostantivo "conversazioni", mentre l'espressione "comunicazioni" ricomprenderebbe anche le comunicazioni tra presenti, non caratterizzate, cioè, dall'uso di uno strumento di trasmissione a distanza di suoni, immagini o dati, ed in tal senso sarebbe confermativo l'orientamento giurisprudenziale consacrato nella pronuncia delle SS.UU. n. 26795 del 2006 in materia di videoriprese a contenuto comunicativo.
A tale ultimo riguardo, infine, la Procura appellante ha sottolineato come in una materia particolarmente "garantita" sotto il profilo dell'utilizzabilità processuale dei risultati delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti, e vincolata ai provvedimenti autorizzatori del giudice, la diversa interpretazione offerta dal GIP di fatto consentirebbe un recupero di materiale probatorio acquisito in assoluto dispregio di tali garanzie e vincoli; ritenere, infatti, la mancata copertura sotto il profilo penale di condotte quale quella in esame non impedirebbe, in prospettiva, l'utilizzazione dell'esito di tali intercettazioni abusive (rientranti, a questo punto nell'ampio concetto di "documenti") nel procedimento penale, proprio perché non illecitamente ottenute.
L'interpretazione suggerita dalla Procura, per quanto condivisibile nelle finalità e nello spirito, non è tuttavia sostenibile alla luce del dato normativo testuale e dell'interpretazione giurisprudenziale dello stesso, in particolare in considerazione del principio di tassatività dell'illecito penale.
Va condivisa, infatti, la lettura della norma contenuta nella sentenza n. 4264 del 2006, ampiamente citata dal GIP, la quale fissa un duplice principio: a) l'art. 617-bis c.p., anche tenendo conto dell'ampliamento oggettivo della fattispecie derivante dall'applicazione della norma di chiusura contenuta nell'art. 623-bis c.p., ha ad oggetto soltanto le attività volte ad intercettare o impedire comunicazioni e conversazioni che avvengono con il mezzo del telefono o del telegrafo o (ai sensi dell'art. 623-bis c.p.) con altre forme di trasmissione a distanza di suoni, immagini o altri dati, non potendo con certezza riguardare anche le intercettazioni o gli impedimenti di conversazioni tra presenti (con la precisazione che la caratteristica essenziale di detta fattispecie, relativamente alle comunicazioni e conversazioni telefoniche, consiste nel fatto che un terzo si inserisca nel canale di trasmissione dati dal quale dovrebbe essere escluso il non comunicante con meccanismi che consentano di percepire quanto affermato da entrambi gli interlocutori) b) allorché l'attività di intercettazione, con qualsiasi mezzo effettuata (anche attraverso un telefono cellulare), non sia idonea ad inserirsi nel canale comunicativo su cui viaggia il flusso di informazioni intercettato (inviato a distanza da un soggetto trasmittente nei confronti di un soggetto ricevente), ma venga eseguita in un determinato luogo ove solo occasionalmente si effettuino delle telefonate (pure nell'ipotesi in cui, per accidente, colui che intercetta riesca, per l'uso del dispositivo "vivavoce" o per il volume del telefono in uso nel luogo ove è posizionato lo strumento di intercettazione, a sentire le voci di entrambi i soggetti coinvolti nella conversazione telefonica) non può dirsi integrata la previsione dell'art. 617-bis c.p. per difetto degli elementi oggettivi e soggettivi (in specie sotto il profilo del dolo specifico) costitutivi della fattispecie.
A tal proposito, va in primo luogo affermato come sia del tutto corretta la considerazione per la quale la collocazione di uno strumento di captazione sonora all'interno dell'abitacolo di un'autovettura non integri la installazione di "apparati, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare (...) comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche" o altre "trasmissioni a distanza di suoni, immagini o altri dati", ai sensi degli artt. 617-bis e 623-bis c.p., posto che strutturalmente il "telefono spia" viene installato al fine di captare i suoni che vengono generati all'interno dell'abitacolo dell'autovettura, e che di regola rimangono all'interno di tale spazio, e non di intercettare flussi di suoni, immagini o altri dati trasmessi a distanza. Anche nel caso in cui uno degli occupanti della vettura parli a telefono (o, il che è lo stesso, detti a taluno presente nella vettura il testo di un telegramma o di una e-mail da spedire, poi, via internet, e simili), la condotta dell'intercettante non viola, attraverso un'indebita intromissione all'interno di esso (o la predisposizione di strumenti atti a tal fine), la necessaria segretezza del canale di comunicazione e trasmissione delle informazioni (che costituisce la ragione della tutela penale di cui all'art. 617-bis), ma coglie, a monte o a valle, solo l'antecedente o il risultato della trasmissione dei dati, sicché detta condotta non può ontologicamente essere inquadrata in quella dell'art. 617-bis c.p.
A ciò si aggiunga, comunque, che, anche a voler ritenere che rientri nei casi di cui all'art. 617-bis c.p., l'ipotesi limite in cui si abbia la prova che la predisposizione di uno strumento di captazione all'interno dell'automobile abbia consentito al captante di udire una o più conversazioni telefoniche "integrali" (comprensive, cioè delle parole di entrambi i protagonisti della stessa, sia di quello che è sull'auto che del suo interlocutore), comunque si porrebbero rilevanti problemi in tema di prova dell'elemento soggettivo del reato, giacché occorrerebbe dimostrare che colui che ha installato il telefono spia sapesse che l'utilizzatore dell'autovettura avrebbe fatto uso del telefono portatile e che confidasse ragionevolmente nella capacità del suo strumento captante di sentire anche la voce della persona non presente nella vettura. Ma nella fattispecie non vi sono indizi adeguati di ciò.
Deve, poi, sicuramente dissentirsi dalle affermazioni dell'appellante nella parte in cui sostengono la possibilità di fare applicazione dell'art. 623-bis c.p. in tutte le ipotesi in cui venga effettuata un'intercettazione di conversazioni e comunicazioni tra presenti mediante un telefono cellulare. In questo caso il telefono "spia" è lo strumento attraverso cui viene effettuata l'intercettazione abusiva, il quale non muta, però, l'oggetto di tale intercettazione, che è sempre una comunicazione tra presenti, non connotata dalla trasmissione a distanza di dati, poiché tale telefonino non si inserisce in alcun canale idoneo alla trasmissione tra soggetti assenti. In altri termini l'espressione "altre forme di trasmissione a distanza di suoni immagini o altri dati" è riferita all'oggetto dell'intercettazione e non allo strumento di captazione ed alle modalità di acquisizione e di trasferimento dei dati al soggetto captante. Una diversa soluzione del resto, come si dirà anche in seguito, svuoterebbe e renderebbe illogica, oltre che inutilmente complicata, la novella del 1974 ed in particolare la riserva dell'art. 615-bis c.p. ai soli luoghi "indicati nell'art. 614".
Ma vi è di più: la formulazione dell'art. 623-bis c.p. è chiarificatrice anche rispetto all'ulteriore tesi sostenuta dalla procura, cioè che l'espressione "comunicazioni" contenuta nell'art. 617-bis c.p. non debba essere limitata soltanto alle comunicazioni telefoniche o telegrafiche, ma debba essere estesa anche alle comunicazioni tra presenti (e, logicamente, ad ogni tipo di comunicazione, se i predetti aggettivi debbono ritenersi riferiti alle sole conversazioni); è evidente che, se così fosse, il richiamo alle "comunicazioni" nell'art. 623-bis sarebbe del tutto inutile, se non fuorviante, nonostante il fatto che sia stato inserito con la stessa novella del 1974.
Del resto è regola ermeneutica basilare che le norme incriminatrici debbano essere lette in considerazione dello specifico bene giuridico protetto, desumibile anche dalla collocazione sistematica delle stesse e dalle definizioni accolte nelle norme correlate, legate a quella in esame dalla stessa ratio e dalle stesse finalità. Ne deriva che gli artt. 617, 617-bis e ter c.p., essendo inseriti nello stesso titolo del codice penale (dedicato alla tutela dell'inviolabilità dei segreti), ed avendo, quanto all'oggetto della tutela penale, la medesima rubrica, e devono inevitabilmente essere letti unitariamente con l'art. 617 c.p., laddove ciò che muta non è l'oggetto della tutela, ma le modalità ed il grado di aggressione allo stesso bene giuridico tutelato, che, come risulta testualmente, è sempre quello delle "comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche".
E l'art. 617 c.p., contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, limita chiaramente l'oggetto della tutela penale alle sole comunicazioni o conversazioni avvenute con il mezzo del telefono o del telegrafo, come si desume inequivocabilmente, oltre che dalla rubrica, dal dato testuale del primo comma dell'articolo medesimo, ove l'utilizzazione del plurale nell'inciso "telefoniche o telegrafiche", a fronte dell'uso del singolare rispetto ai termini "comunicazione" e "conversazione", risolve ogni dubbio esegetico, non consentendo di limitare la suddetta aggettivazione alle sole conversazioni, poiché la stessa si riferisce sicuramente ad ambedue i termini recati dalla norma (del resto appare difficile anche solo immaginare una conversazione telegrafica, ben potendo, al contrario, essere ipotizzata una comunicazione telefonica, ad esempio attraverso messaggi di testo o lasciati in dispositivi di segreterie telefoniche).
Peraltro anche rispetto agli artt. 617, 617-bis e 617-ter c.p., ove si seguisse l'interpretazione dell'appellante riguardo al termine "conversazioni", si porrebbe un problema di compatibilità di tali norme con l'art. 615-bis c.p. (se non di vera e propria irragionevolezza della previsione) analogo a quello già segnalato con riguardo all'art. 623-bis c.p. In pratica se oggetto della fattispecie fossero tutte le comunicazioni (anche visive), tra presenti e non, diverrebbe incomprensibile la ragione per la quale il legislatore avrebbe avvertito l'esigenza - nella stessa novella legislativa - di introdurre un'autonoma norma incriminatrice (l'art. 615-bis) diretta a tutelare i luoghi di cui all'art. 614 c.p. dalle medesime interferenze già sanzionate dall'art. 617-bis, prevedendo, soprattutto, l'identica pena edittale contemplata in quest'ultima disposizione.
Del resto gli unici arresti giurisprudenziali sul punto (citati dal giudice di prime cure) confermano tale ambito applicativo della norma, più ristretto rispetto a quello presupposto dall'ipotesi formulata nel capo di imputazione, espressamente indicando nell'art. 615-bis c.p. la norma incriminatrice destinata a sanzionare le intercettazioni abusive delle conversazioni o comunicazioni tra presenti (evidentemente nei limiti già indicati in precedenza).
Né tali conclusioni, che testualmente pongono un limite insormontabile derivante dall'inderogabile applicazione del principio di tassatività dell'incriminazione penale (caposaldo dell'ordinamento costituzionale), possono essere superate sulla scorta degli ulteriori argomenti sviluppati dalla Procura appellante - volti a stabilire un perfetto parallelismo tra la disciplina della utilizzabilità delle intercettazioni (e, più in generale, delle prove atipiche nel procedimento penale, nei casi in cui tali intercettazioni siano acquisite senza i preventivi controlli e le garanzie di cui agli artt. 266 e 271 c.p.p.) e la tutela penale oggetto delle richiamate norme (615-bis, 617 e 617-bis c.p.) - che, se pur affascinanti e condivisibili nella sostanziale finalità di prevenzione da indebiti attacchi al principio costituzionale della riservatezza, non sono però idonei a vincere la predetta interpretazione semantica della disposizione.
Peraltro, la decisione delle SS.UU. richiamata a tal fine, ad un'attenta lettura, permette di superare le obiezioni dell'appellante. In primo luogo sono le stesse SS.UU. a ricordare come la stessa Corte Cost., in tema di video-riprese (anche a contenuto comunicativo), pur riconoscendo il divieto assoluto delle stesse quando connotate dalla finalità di captare comunicazioni tra presenti nei luoghi di privata dimora, contestualmente ha affermato l'insussistenza di un divieto assoluto della video-ripresa medesima, auspicando sul punto l'intervento del legislatore nell'ampia materia coinvolgente il diritto alla riservatezza non soltanto con riferimento all'invasione della sfera della libertà domiciliare, ma anche della libertà e segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.), auspicio che rende manifesta la consapevolezza dell'esistenza di un vuoto di tutela sul punto.
Ed è sulla scorta di questa premessa che le SS.UU. ritengono di equiparare, quanto a garanzie e vincoli in fase di indagine ed in funzione della futura utilizzabilità nel processo, le video-riprese connotate dalla finalità di captare comunicazioni tra presenti nei luoghi diversi da quelli di privata dimora alle intercettazioni di comunicazioni tra presenti disciplinate dall'art. 266, comma II, c.p.p., così imponendo la necessità della preventiva autorizzazione del GIP.
Ma nonostante tale equiparazione nessun dubbio può residuare sul fatto che un'eventuale video-ripresa abusiva (cioè eseguita senza il consenso del captato e in dispregio dalle forme di cui agli artt. 266-271 c.p.p.) al di fuori dei luoghi di privata dimora, alla stessa stregua delle intercettazioni abusive di conversazione e comunicazioni tra presenti e captate sempre in luoghi diversi rispetto a quelli contenuti nell'art. 614 c.p., pur essendo sicuramente compiuta in violazione dei principi costituzionali sanciti dagli artt. 14 e 15, comma II, Cost., non sia per ciò solo oggetto di tutela penale garantita dall'art. 615-bis c.p. (che, come si è detto, tutela dalle interferenze nella vita privata solo nei luoghi di cui all'art. 614 c.p.). Ma la mancanza di una sanzione penale per tali condotte non implica per ciò solo la possibilità che i risultati di tali abusive interferenze nella vita privata altrui possano essere utilizzati a fini probatori in un eventuale processo penale. Sono, invero, le stesse SS.UU. nella pronuncia appena ricordata a chiarire che, dovendo le stesse essere considerate prove atipiche acquisite in palese violazione di principi di rango costituzionale e delle forme di cui agli artt. 266 e 271 c.p.p. (che, in virtù dell'art. 15, comma II, Cost. operano quale fattore scriminante della lesione del principio dell'inviolabilità della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione), sarebbero radicalmente inammissibili, prima ancora che inutilizzabili, attesa la riferibilità di quest'ultima categoria alle sole prove tipiche. Considerazioni, a parere di questo tribunale, che esulano dai confini del processo penale e valgono relativamente alla ammissibilità della prova anche nei giudizi civili ed amministrativi; si pensi, ad esempio, nell'ambito di una controversia di licenziamento, alla sicura inammissibilità, quale prova del comportamento illegittimo del lavoratore, del filmato abusivamente realizzato dal datore di lavoro mediante la clandestina installazione di telecamere finalizzate al controllo dell'operato dei dipendenti in violazione delle norma dello Statuto dei lavoratori.
Il complesso di tali argomentazioni, pertanto, se da un lato induce effettivamente a ritenere, in consonanza con quanto segnalato dalla Procura appellante, ed ancor prima dalla stessa Corte Costituzionale, l'effettiva ricorrenza di una vasta lacuna legislativa, in termini di omessa protezione penale contro manifestazioni particolarmente invasive ed aggressive della vita privata del singolo - tanto più in un'epoca in cui, da un lato, il progresso tecnologico consente di utilizzare strumenti e dispositivi sempre più sofisticati ed insidiosi per introdursi abusivamente nella sfera privata altrui e, dall'altro, la tutela della c.d. privacy è di fatto assurta a principio essenziale che impronta qualsiasi relazione intersoggettiva di carattere pubblicistico o privatistico - d'altro canto non può condurre ad una forzatura dei canoni interpretativi della norma penale, lesivi del già richiamato principio, anch'esso di rango costituzionale, della tassatività degli illeciti penali.
OMISSIS
Quanto, infine, all'ultimo motivo di gravame proposto dalla Procura, relativo alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del delitto di peculato di cui al capo C), con riguardo all'indebito utilizzo dell'utenza cellulare di servizio assegnata al P. per l'effettuazione di un certo numero di chiamate private senza la previa digitazione del codice "46", necessario per la fatturazione separata di tali chiamate e l'imputazione del relativo costo all'utente e non all'amministrazione (c.d. dual billing), effettivamente da un rapido scorrimento dei tabulati relativi a tale utenza sembra emergere la sussistenza del delitto in parola, posto che, da un lato, risulta l'effettuazione di chiamate sicuramente estranee alle ragioni di servizio (ad esempio quelle effettuate proprio alla M.) e, dall'altro, non è emersa l'imputazione originaria al P. del relativo importo. Del resto va ricordata la natura istantanea del reato alla luce della quale, ovviamente, il successivo rimborso effettuato dal P., si pone quasi come una sorta di autodenuncia; né la configurabilità del reato può essere messa in dubbio sotto il profilo dell'elemento psicologico, essendo evidente che (omissis) P. ben conosca i limiti di utilizzo dell'utenza di servizio, tanto più dopo che l'amministrazione ha previsto la possibilità di avvalersi del sistema di doppia fatturazione sopra ricordato.
Tuttavia, proprio la menzionata richiesta di rimborso, in uno alla risalente data di esaurimento della condotta ed alla modestia economica dell'appropriazione, sono tutti parametri univocamente dimostrativi dell'assenza attuale di autonoma rilevanza cautelare di detta condotta o, quanto meno, della sua inidoneità ad aggravare il trattamento cautelare già applicato dal giudice di prima istanza.

P.Q.M.

Visti gli artt. 273, 274, 310 e 592 c.p.p.,
RIGETTA gli appelli di cui in epigrafe e condanna P.A., per quanto di ragione, al pagamento delle spese del procedimento.
Riserva il deposito della motivazione nei termini di cui all'art. 128 c.p.p.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.
Potenza, 19 dicembre 2008.
Il Giudice est., dott. Antonio Cantillo
Il Presidente, dott. Luigi Spina

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