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PENALE - Mantenimento nel sistema informatico ex art. 615-ter C.P.

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Il caso: un addetto alla cancelleria passa notizie processuali a terzi, attingendole da accessi non autorizzati al sistema informatico e telematico cui era abilitato per servizio.
La Corte, nell'esaminare la questione della segretezza e dei vincoli di divulgabilità delle informazioni delle Cancellerie e Segreterie dei palazzi di giustizia, conclude che non v'è il delitto di cui all'art. 615-ter C.P. nella condotta del pubblico ufficiale, autorizzato ad accedere al CED della Corte di cassazione, che usi tale facoltà per acquisire informazioni per fini estranei a quelli di ufficio. Anzi, si sottolinea come le espressioni "abusivamente si introduce", ambigua se non intesa in senso di "accesso non autorizzato"

(cfr. la cd. "lista minima" della Raccomandazione del Consiglio d'Europa ex L. n° 547/93) e "accesso senza diritto" (access without right: cfr. art. 2 Convenzione sul cyber crime, di cui con la L. n° 48/08 non s'è ritenuto di dare ulteriore attuazione, trattandosi d'ipotesi già disciplinata dall'art. 615-ter C.P.) impongano il rispetto del principio di tassatività.
Poiché manca una riserva all'apposizione della firma del trattato, per ogni norma che rappresenta la trasposizione o l'attuazione di disposizioni sovrannazionali, va privilegiata, tra più possibili letture, quella di senso più conforme alle disposizioni comuni.
La Corte ha evidenziato anche come l'abusività vada intesa in senso oggettivo, in riferimento al momento dell'accesso e alle modalità adoperate dall'autore per neutralizzare e superare le misure di sicurezza apprestate dal titolare del ius exludendi, al fine di selezionare gli ammessi al sistema ed impedire accessi indiscriminati: il reato è integrato dall'accesso non autorizzato nel sistema informatico, ciò che di per sè mette a rischio la riservatezza del domicilio informatico, indipendentemente dallo scopo che si propone l'autore dell'accesso abusivo.
Invero, l'eventuale illecita finalità dell'accesso integrerà un diverso titolo di reato.

 

Cassazione penale, Sez. VI, 08/21.10.2008, n° 39290

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AGRO'    Antonio Stefano, Presidente
Dott. IPPOLITO Francesco, Consigliere
Dott. LANZA    Luigi, Consigliere
Dott. COLLA    Giorgio, Consigliere
Dott. MATERA   Lina, Consigliere
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da: 1) P.G., n. il (omissis); avverso  l'ordinanza  ex art. 309 c.p.p. del  tribunale  di  Palermo,  emessa in data 11.07.2008; letto il ricorso e il provvedimento impugnato; udita la relazione del Cons. Dott. F. Ippolito;  udita  la requisitoria del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale  Dott.  Selvaggi E., che ha concluso  per  il  rigetto  del ricorso; udito l'avv.  Marcella M., che ha concluso per l'annullamento  del provvedimento impugnato.

RITENUTO IN FATTO
1. P.G., tramite i suoi difensori, ricorre per cassazione avverso il provvedimento con cui il Tribunale di Palermo ha parzialmente rigettato la richiesta di riesame da lui proposta avverso l'ordinanza cautelare, emessa dal giudice per le indagini preliminari dello stesso tribunale in data 12 giugno 2008.
Il g.i.p. aveva disposto la misura della custodia carceraria nei confronti dell'indagato, addetto alla cancelleria della 2^ Sez. della Corte di cassazione con la qualifica di ausiliario A1, ravvisando gravi indizi di colpevolezza dei reati di cui agli artt. 319-ter, 615-ter e 416-bis cod. pen. per avere posto in essere condotte finalizzate ad avvantaggiare la posizione processuale e/o detentiva di R.C., S.A., A.G. e D.G.R., in relazione a ricorsi pendenti i primi tre presso la 2^ sezione penale, l'ultimo presso la 4^ sezione penale della Corte di cassazione).
Il giudice per le indagini preliminari aveva ravvisato gravi indizi di colpevolezza anche del reato di concorso esterno in associazione mafiosa e contestato, per gli altri reati, l'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.
Il Tribunale del riesame ha annullato l'ordinanza applicativa della custodia limitatamente alla sussistenza degli indizi del delitto di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen. ed all'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 contestata ai capi a) d) ed e) della rubrica, confermando nel resto il provvedimento cautelare.
2. L'ordinanza impugnata ha ritenuto sussistere a carico dell'indagato P.G. gravi indizi di colpevolezza di concorso continuato nei delitti di corruzione in atti giudiziali e di accesso abusivo ad un sistema informatico, addebitati a "ignoti pubblici ufficiali in corso di identificazione".
Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, i predetti pubblici ufficiali - su istigazione del P., a suo volta incaricato dal G., che costituiva il tramite di collegamento con i soggetti (legati o appartenenti all'associazione mafiosa "cosa nostra") interessati al rallentamento ed al favorevole esito di ricorsi per cassazione - avrebbero, dietro pagamento o premessa di pagamento di somme di danaro (imprecisate per A. e D.G., quantificabili in almeno 5.000,00 Euro per R. e in 20.000,00 Euro per S.), in violazione dei doveri di ufficio, fornito informazioni sullo stato dei procedimenti, acquisite tramite accesso abusivo al CED della Corte di cassazione o con verifica dello stato delle notifiche degli avvisi alle parti, nonché compiuto atti volti a procrastinare la definizione dei ricorsi. In un caso, quello concernente il ricorso R., si addebita anche di avere, dietro pagamento di denaro da parte di costui, ritardato la comunicazione (avvenuta dopo 20 giorni su richiesta degli uffici palermitani) al tribunale di Palermo del rigetto dell'impugnazione avverso un'ordinanza in materia di libertà emessa dal Tribunale, che aveva accolto l'appello del Pubblico Ministero contro provvedimento del g.i.p., rigetto che comportava nei confronti del R. la cessazione dell'effetto sospensivo di cui all'art. 310 c.p.p., comma 3 e, quindi, la sostituzione degli arresti domiciliari con la custodia in carcere.
In particolare, dal materiale acquisito dalle investigazioni dei Carabinieri di Trapani e Agrigento, e specificamente dalle conversazioni telefoniche intercettate, i giudici hanno tratto il convincimento che il G., per favorire suoi sodali vicini a "cosa nostra", si avvalesse dell'attività retribuita del P., che si adoperava per fornire notizie utili in merito all'andamento dei procedimenti di volta in volta indicatigli, nonché di eseguire le direttive che gli venivano impartite con lo scopo finale di ritardare il più possibile lo svolgimento dei procedimenti o, comunque, di attuare condotte volte a favorire i ricorrenti.
L'ordinanza, ribadendo che "è emerso che alla vicenda collaboravano altre persone", convalida la convinzione reiteratamente espressa nel provvedimento applicativo della misura cautelare, secondo cui - escluso il concorso di magistrati (in considerazione degli esiti dei ricorsi, tutti negativi per i ricorrenti) - il P., "proprio per la qualifica ricoperta, non poteva affatto compiere le attività di controllo e di acquisizione di notizie dei procedimenti senza l'altrettanto indispensabile contributo di altri funzionari operanti all'interno della Corte". In particolare, "l'accesso continuo al sistema riservato del Ced (...) non poteva essere compiuta dal solo P.G. il quale (...) svolge meri compiti ausiliari né poteva avere accesso diretto a detto sistema senza codici di accesso altrui né seguire costantemente l'andamento delle pratiche che il G. gli segnalava".
3. Nel ricorso, dopo un'ampia premessa in fatto, in cui si ricostruiscono le vicende processuali, con riferimenti al contenuto dei cd. "brogliacci" di fissazione delle udienze, al ruolo di dibattimento e a dichiarazioni rese nel corso di investigazioni difensive da funzionari della cancelleria della 2^ sezione penale e del CED della Cassazione, si deduce, tra l'altro, violazione degli artt. 273 e 125 c.p.p., artt. 319-ter, 615-ter e 346 c.p., nonché mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà di motivazione intratestuale per non avere replicato adeguatamente alle deduzioni difensive in sede di riesame ed extratestuale per aver fatto mal governo delle informazioni processuali, specificamente indicate (certificato del Dirigente amministrativo della Corte di cassazione;
dichiarazioni della Responsabile della procedura di automazione civile e penale; copia delle visualizzazioni sintetiche dei procedimenti R., A. e S.; copia dei brogliacci delle udienze della 2^ sezione penale; verbale delle dichiarazioni rese dai cancellieri Dott. St. e Dott. I. nel corso delle investigazioni difensive).
Si censura, inoltre il provvedimento per violazione dell'art. 274 c.p.p., lett. a) e c), art. 275 c.p.p., comma 2-bis, art. 292 c.p.p. e per vizio di motivazione sul punto.
Con successiva memoria difensiva, depositata il 3 ottobre, sono stati analiticamente illustrati i motivi proposti, insistendo nella prospettazione del millantato credito da parte del G. e rilevando che l'impostazione accusatoria deriva da un'imperfetta conoscenza dei meccanismi di funzionamento della Corte di cassazione.
Inoltre, con la predetta memoria, il ricorrente reitera la dedotta incompetenza-territoriale del Tribunale di Palermo ai sensi dell'art. 51 c.p.p., commi 3-bis, 8, 12, art. 125 c.p.p., comma 3, a seguito dell'ordinanza del tribunale del riesame che ha parzialmente accolto l'istanza ex art. 309 c.p.p. relativamente all'art. 416-bis cod. proc. pen. e al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è fondato nei limiti appresso specificati.
5. Il giudice del riesame fonda il suo convincimento sul contenuto delle intercettazioni telefoniche (fortemente indicative della disponibilità del P., protrattasi per anni, a secondare talune richieste del G.) e su alcuni dati obiettivi riscontrati nel corso dei quattro procedimenti relativi ai ricorsi sopra indicati (ritardi di comunicazione a (omissis) per il rigetto del ricorso R., differimento di trattazione dei procedimenti S. ed A., ritardo di fissazione del ricorso D.G.), considerati come effetti dell'intesa corruttiva e dell'attivazione illecita di (non ancora identificati) pubblici ufficiali in servizio presso la Corte di cassazione, istigati dal P., a sua volta indotto da G..
La difesa aveva svolto indagini investigative ex art. 327-bis cod. proc. pen. aventi ad oggetto le ritenute anomalie dei quattro procedimenti, rimettendone i contenuti al Tribunale e prospettando una ricostruzione degli eventi procedimentali indenne da interferenze dolose di pubblici ufficiali (che assumeva inesistenti) e del tutto autonoma rispetto al contenuto dei colloqui intercettati, espressivi di intenti non realizzati di manipolare atti e procedimenti pendenti in cassazione.
Il giudice del riesame poteva certo motivatamente disattendere tale lettura sulla base di una differente ricostruzione dei fatti, ma aveva il dovere di prendere in esame gli elementi portati a sua conoscenza e di esporre "i motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa" (art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c-bis).
Il Tribunale, mentre nella parte descrittiva del provvedimento (pp. 7- 8), fa espressa ed analitica menzione delle deduzioni difensive e degli esiti delle investigazioni svolte dai difensori, sul piano valutativo si limita ad osservare che "non possono assumere rilievo decisivo le deduzioni difensive - oltre che gli esiti delle investigazioni difensive - concernenti la prassi dei brogliacci oppure l'errore materiale concernente l'indicazione sul ruolo della decisione impugnata dal R.".
Era invece necessario - tanto più a fronte del ribadito convincimento dell'impossibilità dell'indagato di compiere i fatti a lui contestati senza godere della complicità di ignoti pubblici ufficiali, sul presupposto che il P. non potesse compiere le attività di cui alla contestazione - dare adeguate risposte alle censure avanzate della difesa e, soprattutto, fornire una valutazione dei risultati delle investigazioni svolte dai difensori al fine di stabilire quali e quante delle anomalie rilevate nei procedimenti relativi ai quattro ricorsi fossero ascrivibili ad attività illecite e quali attività il P. non avrebbe potuto compiere senza la complicità di pubblici ufficiali in servizio presso la Corte di cassazione.
Le sbrigative e apodittiche espressioni sopra trascritte costituiscono soltanto una motivazione apparente, che non esplicita le ragioni di reiezione delle deduzioni difensive e non risponde ai quesiti che i risultati delle investigazioni effettuate prospettavano, con particolare riferimento al contenuto delle dichiarazioni rese dai cancellieri dr. St. e dr. I..
Non è irrilevante per la corretta ricostruzione delle vicende e per la stessa impostazione accusatoria che l'accertata mancata tempestiva comunicazione, ex art. 92 disp. att. c.p.p., della pronuncia, datata 3.2.2006, di rigetto del ricorso del R. sia avvenuta per dolosa violazione di doveri d'ufficio da parte di pubblici ufficiali, istigati dal P., o invece per incolpevole lettura da parte dei funzionali della 2^ sezione del dispositivo annotato sul ruolo, determinato dall'errore di scritturazione, da parte della Cancelleria centrale, dell'oggetto del ricorso al momento dell'inserimento dei dati nel sistema informatico.
né può essere considerato senza rilievo che la trattazione dei ricorsi S. e A., già inseriti nel brogliaccio d'udienza rispettivamente del 17 maggio 2006 e del 29 marzo 2007, fosse stata differita per doloso intervento di qualche complice del P. ovvero per autonoma e responsabile decisione del Presidente della 2^ Sezione al 4 ottobre 2006 e al 5 giugno 2007 a seguito del sopraggiungere di altri più urgenti e gravosi ricorsi.
Nel secondo caso sarebbe arduo ipotizzare un intervento, causalmente efficace, del P.; nella prima ipotesi, sarebbe stato doveroso evidenziare elementi idonei a dimostrare la concreta possibilità che il Presidente della Sezione fosse stato indotto in errore ad opera del P. o dei suoi ignoti complici.
Relativamente al ricorso D.G., il ritardo di fissazione dell'udienza (settembre 2008, poi anticipata a luglio) rispetto al tempo dell'iscrizione (dicembre 2005) non costituisce, di per sè, elemento di riscontro al contenuto delle intercettazioni telefoniche in mancanza della rappresentazione di qualche elemento di fatto idoneo a rendere verosimile o probabile che il P. o i suoi complici si siano effettivamente adoperati per determinare una situazione che impedisse al Presidente della 4^ sezione di fissare il procedimento in tempo anteriore. Il pur significativo elemento che scaturisce dalle dichiarazioni della coindagata S.F., che riferisce di un accordo corruttivo sussistente tra D.G. e G. e delle confidenze del G. sulla presenza di un suo amico di (omissis) impiegato in cassazione che poteva corrompere e a cui egli consegnava denaro (pag. 30 dell'ordinanza), appare compatibile con l'ipotesi del millantato credito.
L'esame dei risultati delle investigazioni difensive e la risposta a quesiti sopra indicati è indispensabile per valutare sia la gravità del quadro indiziario nella sua effettiva consistenza di contesto sia l'esigenza e l'adeguatezza della misura cautelare nei confronti del P. (diversamente apprezzabile a secondo che esista o no una rete di collegamenti illecita interna alla Corte di cassazione), nonché ai fini dell'apprezzamento dell'alternativa ricostruzione dei fatti prospettata dalla difesa circa il millantato credito del G. (ed eventualmente dello stesso P.). E ciò tanto più che, se ai fini della sussistenza del reato di corruzione, l'identità del pubblico ufficiale può anche restare ignota, è tuttavia indispensabile che nessun dubbio sussista circa l'effettivo concorso del pubblico ufficiale o dell'incaricato del pubblico servizio nel fatto di corruzione.
6. Per valutare correttamente il quadro indiziario, necessaria e rilevante era anche la precisa ricostruzione da parte del Tribunale del funzionamento del sistema d'informazioni avente ad oggetto le notizie sullo stato dei procedimenti pendenti in cassazione.
In proposito si osserva che i reati di corruzione sono stati contestati con riferimento alla L. n. 1196 del 1960, art. 159, secondo cui "il funzionario di cancelleria e segreteria e il dattilografo devono osservare il più scrupoloso segreto di ufficio e non possono dare a chi non ne abbia diritto, anche se non si tratti di atti segreti, informazioni o comunicazioni relative a operazioni o provvedimenti giudiziari o comunque amministrativi di qualsiasi natura e dei quali siano venuti a conoscenza a causa del loro ufficio".
Si tratta di una norma specificamente diretta al personale degli uffici giudiziari disciplinato dalla L. n. 1196 del 1960, recante "ordinamento del personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie e dei dattilografi". né la legge nel suo complesso né l'art. 159 avevano come destinatari il personale ausiliario, al quale si applicava la più generale norma di cui al DPR 10 gennaio 1957, n. 3, art. 15 (T.U. sullo statuto degli impiegati civili dello Stato).
Il sistema ordinamentale del personale amministrativo giudiziario di cui all'art. n. 1196 del 1960 fu poi profondamente modificato dal D.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1077 (riordinamento delle carriere degli impiegati civili dello Stato), il cui art. 153, comma 1 dispone che "oltre le disposizioni espressamente abrogate dal presente decreto, devono intendersi abrogate quelle con esse incompatibili".
Leggi e disposizioni successive hanno ulteriormente innovato la materia ordinamentale dei pubblici impiegati, in particolare, la L. n. 312 del 1980 (istitutiva delle qualifiche funzionali e dei corrispondenti profili professionali), il D.Lgs. n. 29 del 1993, la L. n. 59 del 1997 e L. n. 127 del 1997 con i successivi decreti delegati di attuazione e il CCNL "comparto ministeri" 1994-1997, applicabile anche agli impiegati del Ministero della giustizia.
Per quanto concerne la disciplina del segreto e delle informazioni con riguardo ad atti di ufficio, applicabile in generale agli impiegati civili dello Stato, va ricordato che il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 15 è stato sostituito dal testo introdotto dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 28: "L'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio. Non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso. Nell'ambito delle proprie attribuzioni, l'impiegato preposto ad un ufficio rilascia copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei casi non vietati dall'ordinamento".
Infine, a seguito della delegificazione introdotta dalla L. n. 59 del 1997 e L. n. 127 del 1997, con la piena contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico, i doveri, le sanzioni, la procedura e il codice disciplinare dei pubblici impiegati sono regolati dagli artt. 23-25 CCNL 1994-1997, che all'art. 43, comma 1, lett. p dispone che nei confronti del personale del comparto Ministeri, dalla data di stipulazione del contratto collettivo è inapplicabile il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 15.
Anche ai fini della corretta individuazione della norma applicabile in tema di segreto e d'informazioni sugli atti di ufficio è pregiudiziale una puntuale ricostruzione fattuale.
L'eventuale concreta esistenza di pubblici ufficiali complici del P. renderebbe applicabile la L. n. 1196 del 1960, art. 159, norma speciale rivolta al personale oggetto della disciplina ordinamentale ivi prevista e compatibile con i successivi inquadramenti di tale personale nella carriera direttiva e di concetto, che poi ha assunto altre denominazioni, qualifiche, livelli e profili professionali.
In difetto di elementi idonei a dar concreta consistenza all'ipotesi di apporti concorsuali da parte di pubblici ufficiali e di conseguente ascrivibilità al solo P. delle condotte illecite interne agli uffici della Corte, è applicabile non già il suddetto art. 159, bensì la disciplina generale di cui all'art. 23, comma 3 CCNL "comparto ministeri" 1994-1997 e succ. modd., il quale dispone che il "dipendente deve in particolare: (...) b) rispettare il segreto di ufficio nei casi e nei modi previsti dalle norme dei singoli ordinamenti ai sensi della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 24; c) non utilizzare ai fini privati le informazioni di cui disponga per ragioni di ufficio.
7. In ogni caso, quali che siano le norme applicabili e l'impiegato o i funzionari pubblici coinvolti, va precisato che non tutte le notizie su atti di ufficio sono segrete o riservate, dovendosi tenere conto delle modificazioni normative e di sistema che, nel corso del tempo, hanno profondamente cambiato il volto della pubblica amministrazione e dei suoi rapporti d'informazione e di comunicazione con l'utenza specifica, con i cittadini e con la collettività.
Così, a titolo meramente esemplificativo e limitatamente a materie che possono rilevare nel presente procedimento, criteri di trasparenza amministrativa e giudiziaria, necessità di tempestiva conoscenza da parte degli utenti ed esigenze di controllo diffuso della pubblica opinione hanno fatto uscire dall'ambito della riservatezza d'ufficio la composizione dei collegi giudiziari, sempreché ovviamente le relative tabelle abbiano completato le prescritte procedure e siano state inoltrate al Consiglio superiore della magistratura. Analogamente non esiste alcuna riservatezza né sull'ordine (predefinito) di trattazione dei ricorsi durante le udienze, né sull'esito dei ricorsi trattati dai vari collegi della Corte, una volta che i dispositivi siano stati letti in pubblica udienza, per cui la relativa comunicazione alle parti, ai giornalisti o a qualsiasi altra persona, non può costituire violazione di doveri dell'impiegato pubblico (mentre dall'ordinanza impugnata essa è addebitata come espressione della disponibilità del pubblico impiegato a fungere da strumento per conoscere in anticipo le decisioni giudiziali).
Non hanno ovviamente natura riservata le informazioni che qualsiasi persona può legittimamente (e gratuitamente) conoscere (v. ordine di servizio del Dirigente amministrativo della Corte n. 16/95 in data 21.10.1995 relativa a "informazioni agli utenti" e dalla nota 10.7.2008 dell'Ufficio Informazioni Procedimenti Civili e Penali, che tiene conto delle innovazioni e dei nuovi strumenti informatici a disposizione dell'utenza), consultando la rubrica alfabetica presso l'Ufficio informazioni o rivolgendosi al personale ivi addetto ovvero utilizzando direttamente i-terminali installati nei corridoi del palazzo di giustizia, i quali forniscono, con l'immissione del numero di registro generale del ricorso, notizie non coperte da alcun segreto sullo stato del procedimento (data d'iscrizione, sezione di destinazione, udienza di trattazione, esito del ricorso, età), che sono le stesse riportate nella "videata" e nel foglietto di "visualizzazione sintetica de procedimenti".
Ovviamente, con riferimento agli atti del fascicolo processuale, la cui conoscenza, prima della decisione, è riservata alle parti e a chi deve occuparsi della sua formazione e del suo esame (cancellieri e giudici), ogni notizia o informazione fornita a soggetti non legittimati sulla presenza o l'assenza di atti e documenti (comprese le cartoline relative alla notifica degli avvisi alle parti) è illegittima e può integrare le diverse fattispecie penali, ricorrendone le condizioni.
Invece, l'impiegato che fornisce le notizie che qualsiasi persona può apprendere con la consultazione dei-terminali passivi non viola alcun dovere di segreto o di riservatezza, ma sicuramente rende un favore al destinatario della sua comunicazione, evitandogli la scomodità e l'onere di raggiungere il palazzo di giustizia.
8. L'ordinanza impugnata muove, invece, dall'assunto che la consegna del foglietto di "visualizzazione sintetica del procedimento" da parte del P. al G. costituisca di per sè violazione del dovere di riservatezza (e grave indizio dell'accesso abusivo al sistema informatizzato, non essendo il P. titolare di password che abiliti ad accedere al sistema informatico).
Si tratta di assunto erroneo, giacché le notizie sullo stato dei procedimenti non sono coperte da alcun segreto, ben potendo il G. ottenere legittimamente quelle medesime notizie o consultando i-terminali situati nel corridoio d'ingresso del palazzo di giustizia o esaminando la rubrica alfabetica o rivolgendosi al personale dell'Ufficio informazioni (né, al fine che ci occupa, ha alcun rilievo giuridico che le notizie siano apprese telefonicamente, con visione dal video-terminale o lettura del foglietto cartaceo di visualizzazione).
Per quanto riguarda l'accesso al sistema informatico da parte del personale della Corte di cassazione, è bene precisare che per ottenere la visualizzare delle informazioni generali (la "visualizzazione sintetica del procedimento"), ovviamente senza alcuna possibilità di manipolazione dei dati, non è necessario essere in possesso di una password personale, che viene concessa a chi deve inserire dati nel sistema informatico. E' sufficiente digitare come unica credenziale la parola "info" (sia per il nome dell'utente sia per la password), credenziale "praticamente a disposizione di tutto il personale che utilizza le macchine connesse alla rete" (secondo la dichiarazione, allegata al ricorso, resa ai Carabinieri del Reparto operativo del Comando provinciale di Trapani dal Responsabile della procedura di automazione civile e penale della Corte di cassazione).
9. Al P. è contestato il delitto di cui all'art. 615-ter cod. pen., con le aggravanti di cui al comma 2, n. 1 e del comma 3, perché ignoti pubblici ufficiali, in corso di identificazione, in servizio presso la Corte di cassazione (su istigazione del P. e, per il tramite di questi, di G.) "si introducevano abusivamente nel sistema informatico CED della Corte di Cassazione, protetto da misure di sicurezza, e ciò al solo scopo di fornire al P. il documento definito visualizzazione sintetica del procedimento" relativo allo stato dei ricorsi pendente in Corte di cassazione (precisamente alla sez. 2^ quelli di S.A. e A.G.; alla sez. 5^ quello di D.G. R.).
Nella fattispecie di cui all'art. 615 c.p. sono delineate due diverse condotte integratici del delitto; la prima (quella contestata agli indagati) consiste nel fatto di "chi abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misura di sicurezza", la seconda nel fatto di chi "vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo".
In dottrina e giurisprudenza (v. Cass., sez. 5^, n. 26797/2008) è stato giustamente criticata l'espressione "abusivamente si introduce" per la sua forte ambiguità e la conseguente possibilità d'imprevedibili e pericolose dilatazioni della fattispecie penale se non intesa in senso di "accesso non autorizzato", secondo la più corretta espressione di cui alla cd. "lista minima" della Raccomandazione del Consiglio d'Europa (89) 9, attuata in Italia con la L. n. 547 del 1993, e di "accesso senza diritto" (access without right) impiegata nell'art. 2 della Convenzione sul cyber crime (cui al quale con la L. n. 48 del 2008 non s'è ritenuto di dare ulteriore attuazione, trattandosi d'ipotesi già disciplinata dall'art. 615-ter cod. pen.).
Il Collegio aderisce a tale rigorosa lettura dell'art. 615-ter cod. pen., anche in applicazione del principio secondo cui, in mancanza di riserva all'apposizione della firma dei trattati, "per ogni norma che rappresenta la trasposizione o l'attuazione di disposizioni sovrannazionali, va privilegiata, tra più possibili letture, quella di senso più conforme alle disposizioni comuni", opportunamente sottolineato da Cass. sez. 5^, n. 26797/08.
La qualificazione di abusività va intesa in senso oggettivo, con riferimento al momento dell'accesso ed alle modalità utilizzate dall'autore per neutralizzare e superare le misure di sicurezza (chiavi fisiche o elettroniche, password, etc.) apprestate dal titolare del ius exludendi, al fine di selezionare gli ammessi al sistema ed impedire accessi indiscriminati. Il reato è integrato dall'accesso non autorizzato nel sistema informatico, ciò che di per sè mette a rischio la riservatezza del domicilio informatico, indipendentemente dallo scopo che si propone l'autore dell'accesso abusivo.
La finalità dell'accesso, se illecita, integrerà eventualmente un diverso titolo di reato, come ha affermato questa Corte in due precedenti arresti, che presentano forti analogie con la vicenda in esame. In tal senso, Cass. n. 2534/2007 con riferimento alla condotta di un ispettore della Polizia di Stato e di appartenente all'Arma dei Carabinieri, che si servivano dell'autorizzazione all'accesso alla banca dati degli organi di polizia per acquisire dati riservati che trasmettevano ad un'agenzia investigativa, e Cass. n. 26797/08, in relazione alla condotta di un cancelliere dell'ufficio del giudice delle indagini preliminari, autorizzato all'accesso ai registri informatizzati dell'amministrazione della giustizia, che aveva fornito notizie riservate ad un avvocato.
In entrambi i casi è stato ritenuto che la trasmissione a terzi di notizie apprese dalla consultazione della banca dati non attiene alle modalità che regolano l'accesso al sistema e la consultazione dei dati in esso registrati, ma riguarda l'uso successivo che di tali dati s'è fatto, con eventuale integrazione di altre fattispecie illecite.
Non può, pertanto, condividersi l'interpretazione della norma sottesa alla contestazione sopra riferita, che individua l'abusività della condotta nel fatto del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che, abilitato ad accedere al sistema informatico, usi tale facoltà per finalità estranee all'ufficio ("al solo scopo di fornire al P. il documento definito visualizzazione sintetica del procedimento"), in linea con taluni precedenti di legittimità, secondo cui integra la fattispecie criminosa anche chi, autorizzato all'accesso per una determinata finalità, utilizzi il titolo di legittimazione per una finalità diversa e, quindi, non rispetti le condizioni alle quali era subordinato l'accesso (Cass. n. 12732/2000).
Oltre ad essere contrastante con l'indicato testo della Raccomandazione del Consiglio d'Europa, tale lettura della norma finisce con l'intrecciare le due condotte descritte dall'art. 615-ter cod. pen., che sono differenti e alternative, disgiuntamente considerate dal legislatore. Sarebbe stata pleonastica la descrizione della seconda condotta se la prima fosse integrata anche da chi usa la legittimazione all'accesso per fini diversi da quelli a cui è stato legittimato dal titolare del sistema.
Deve pertanto concludersi che non costituisce il delitto di cui all'art. 615-ter cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale, autorizzato ad accedere al CED della Corte di cassazione, che usi tale facoltà per acquisire informazioni per fini estranei a quelli di ufficio (conf. Cass. sez. 5^, n. 2534/07; Id. 26797/08).
Se i pubblici ufficiali ignoti da identificare, di cui alla contestazione sopra sintetizzata, fossero o no legittimati all'accesso al CED è problema di fatto, rimesso all'esclusivo accertamento e alla valutazione dei giudici di merito, ma su cui l'ordinanza del Tribunale del riesame non offre alcuna informazione.
Se invece il concorso d'ignoti pubblici ufficiali dovesse essere escluso, si porrà il problema della legittimazione dell'ausiliario Al P.G. ad accedere al sistema informatico della Corte di cassazione, problema che involge anch'esso una specifica questione di fatto, dovendosi considerare che anche talune unità di personale ausiliario possono essere abilitati all'accesso di notizie di primo livello, ossia alle informazioni delle già indicate notizie non riservate, ovviamente senza alcuna possibilità di manipolazione dei dati.
Sia nell'ipotesi di concorso di altri pubblici ufficiali sia in quella dell'eventuale autonoma iniziativa del P., i giudici di merito devono poi motivare sugli elementi che sorreggono l'ipotesi dell'aggravante di cui all'art. 615-ter cod. pen., comma 2, n. 3 (danneggiamelo del sistema o dei dati, delle informazioni o dei programmi in esso contenuti), di cui non si coglie traccia alcuna nell'ordinanza impugnata.
10. Quanto sopra rilevato, tuttavia, non implica la legittimità dei comportamenti addebitati all'indagato (e agli eventuali suoi complici), giacché il dipendente deve "non utilizzare a fini privati le informazioni di cui disponga per ragioni di ufficio" (art. 23, comma 3, lett. c) CCNL).
E' la "privatizzazione" delle informazioni - anche di quelle non riservate, soprattutto quando essa è sistematica e tanto più quando è la controprestazione di un'illecita ricezione di danaro - che rileva ai fini della configurazione delle fattispecie penali.
L'ordinanza impugnata ha motivatamente evidenziato, sulla base del contenuto delle intercettazioni telefoniche, la sussistenza di gravi indizi per quanto riguarda le reiterate informazioni fornite da P. a G. sullo stato dei procedimenti innanzi indicati, nonché sull'assenza o presenza della prova delle notifiche degli avvisi alle parti. L'ordinanza ha pure indicato il contenuto di una conversazione (27.1.2006) tra P. e G., in cui si utilizzava "un linguaggio allusivo che veniva subito compreso dal P. e che il complessivo tenore delle conversazioni intercettate fa ritenere certamente riferibile al denaro che doveva essere sborsato come compenso per le illecite attività esercitate".
Secondo il consolidato principio affermato da questa Corte in materia d'intercettazioni di conversazioni, l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa all'apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità se la relativa motivazione risulta - come nel caso in esame - indenne da manifesti vizi logici (v. per tutte Cass. 6, n. 17619/2008 ced 239724).
Per quanto riguarda gli altri riferimenti al danaro (in tesi necessario ai fini corruttivi) che l'ordinanza impugnata deduce dal contenuto delle intercettazioni di conversazioni del G. con interlocutori diversi dal P. e dalle dichiarazioni già riferite della coindagata S.F., allo stato, in mancanza dell'esame del giudice di merito delle investigazioni difensive sopra indicate, appaiono compatibili con la tesi del millantato credito del G. a danno dei suoi interlocutori-committenti, che lo incaricavano di "interventi" presso la Corte.
Quale situazione ed effettiva realtà si configuri nella vicenda in esame è questione che non rientra nei poteri del giudice di legittimità ed appartiene alla competenza del giudice di merito, che deve altresì verificare se all'ausiliario P. fossero affidate "di fatto" compiti e mansioni che implicavano l'attribuzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio, posto che l'art. 358 cod. pen. esclude da tale ambito "lo svolgimento di mansioni d'ordine e della prestazione di opera meramente materiale", come quelle normalmente rientranti nei compiti dell'ausiliario A1, e che questa Corte ha ritenuto che il commesso giudiziario possa essere qualificato incaricato di pubblico servizio soltanto con riferimento a ulteriori mansioni concretamente svolte (cfr. Cass. 6, n. 30152/2004 ced. 229447; Cass. 2, n. 11724/1994 ced. 199764, relative entrambe a commessi giudiziari).
11. Il provvedimento impugnato va, pertanto, annullato con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Palermo, dovendo, allo stato, rigettarsi l'eccezione d'incompetenza-territoriale, dedotta ai sensi dell'art. 51 c.p.p., commi 3-bis, 8, 12, art. 125 c.p.p., comma 3, in quanto le indagini preliminari sono ancora in corso per le originarie notitiae criminis a carico di tutti gli indagati con possibilità di ulteriori sviluppi e approfondimenti (v. Cass. sez. 2, 45215/07, ced 238313; sez. 4, n. 40332/07, ced 237788).
Il criterio del forum commissi delicti può essere derogato a fronte di previsioni normative che privilegino altri criteri di determinazione della competenza per-territorio.
L'art. 51 c.p.p., comma 3-bis e art. 328 c.p.p., comma 1-bis, istituiscono, limitatamente ai reati in essi elencati, un'espressa deroga, assoluta ed esclusiva, degli ordinari criteri determinativi della competenza per-territorio, anche fuori degli ambiti distrettuali, e tale norma esercita una vis actractiva nei confronti dei delitti connessi. Ne consegue che la competenza del procuratore e del gip distrettuali, legittimamente radicata in relazione ad un delitto previsto dall'art. 51 c.p.p., comma 3-bis e art. 328 c.p.p., comma 1-bis, si estende a tutti i reati connessi ed agli imputati dello stesso procedimento (Cass. sez. 1^, n. 12141/06, ced 233869; Id. 21352/05, ced. 231805; sez. 6^ n. 2499/03, ced 228671; id. 4345/03, ced 228675; sez. 5^ 1940/1993, 194452).
L'attuale fase d'indagine preliminare rende ancora competente pur in presenza dell'ordinanza de libertate impugnata, il foro palermitano fino a quando permanga la possibilità di ulteriori sviluppi ed approfondimenti, anche in relazione agli "ignoti pubblici ufficiali in corso d'identificazione", ferma rimanendo la doverosità del giudice di spogliarsi della competenza al momento della conclusione della fase preliminare nel caso non fossero acquisiti ulteriori elementi idonei a radicare nel tribunale di Palermo anche la fase del giudizio nel rispetto dell'art. 12 cod. proc. pen.

P.Q.M.

La Corte annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Palermo.
Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2008.
Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2008

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